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Il Concilio ecumenico di Costanza e il conciliarismo
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Il conciliarismo

 
Il Concilio ecumenico di Costanza (1414) ha fatto la sua parte nel risolvere lo scisma che perdurava da quarant'anni.  
 
Infamato e “deposto” il cardinale Baldassarre Cossa (Giovanni XXIII), incassata l'abdicazione di Gregorio XII, il papa legittimo, isolato, deposto e scomunicato Benedetto XIII, l'11 novembre 1417 venne eletto, finalmente come “unico papa”, il cardinale Oddo Colonna, che prese il nome di Martino V (1369-1431).  
 
Ma questo Concilio fu tutt'altro che esente da problemi. Il 6 aprile 1415, venne approvato dai Padri conciliari il decreto Hæc sancta, che conteneva un paragrafo in cui si avvertiva un certo sapore di conciliarismo: «[Questo santo Sinodo di Costanza] in primo luogo dichiara che esso, legittimamente riunito nello Spirito Santo, essendo concilio generale e rappresentando la chiesa cattolica militante, riceve il proprio potere direttamente dal Cristo e che chiunque, di qualunque condizione e dignità, compresa quella papale, è tenuto ad obbedirle in ciò che riguarda la fede e l'estirpazione dello scisma e la riforma generale nel capo e nelle membra della chiesa di Dio».  
 
Questo paragrafo sembra dare l'approvazione di un concilio ecumenico ad un'affermazione eretica, in quanto vi si sosterrebbe la superiorità dei concili sul papa.  
 
Era questa un'idea che tornava e ritornava, con toni, sfumature e accentuazioni differenti, sulla penna di alcuni importanti teologi da almeno un secolo, sebbene si ritenga che il “progenitore” del conciliarismo sarebbe un testo giuridico presente nella raccolta del XII secolo, Concordia discordantium canonum ac primum de iure nature et constitutionis, più comunemente nota come Decretum Gratiani; secondo questo testo il papa potrebbe venire giudicato dalla Chiesa in caso di eresia.  
 
Il testo sembra attribuibile al cardinale Umberto di Silva Candida (+1061), compagno di lotte di San Pier Damiani.  
 
La posizione conciliarista conobbe un primo sostanzioso sviluppo quando si acuì lo scontro tra il papato e il potere secolare, che trovarono protagonisti Bonifacio VIII (1230ca-1303) e Giovanni XXII (1244ca-1334).  
 
Di fronte a pontefici che, con il loro comportamento, hanno rischiato di provocare divisioni all'interno della Chiesa, o di fatto queste scissioni le hanno provocate, la reazione di taluni fu proprio quella di limitare il potere primaziale e supremo del successore di Pietro, o almeno di sostenere la possibilità di un controllo sul suo operato da parte “della Chiesa” (per alcuni un concilio, per altri il corpo cardinalizio, per altri la Chiesa nel suo insieme), che potesse giungere fino alla deposizione del pontefice.  
 
In questo contesto, personaggi di spicco come il teologo domenicano dell'Università di Parigi, Jean Quidort (1255ca-1306), il filosofo Marsilio da Padova (1275-1342), i francescani Michele da Cesena (1270ca-1342), che fu anche ministro generale dell'ordine per dodici anni, e Bonagrazia da Bergamo (+1340), presero carta e penna per sostenere la superiorità del concilio sul papa e frenare, in questo modo, il malgoverno dei pontefici.  
 
Discusso invece se un altro nome famoso sostenesse una teoria propriamente conciliarista; si tratta del francescano Guglielmo di Ockham (1288-1347), anch'egli sostenitore, come Marsilio e i due confratelli, di Ludovico il Bavaro (1282-1347) nello scontro con i papi avignonesi.  
 
Quando sulla Sede romana salì l'ingestibile Urbano VI (1318-1389), al quale venne contrapposto l'antipapa Clemente VII (1342-1394) (vedi qui), si verificò una seconda ondata di riflessioni favorevoli alla superiorità del concilio sul papa, con il tentativo di giustificare il ricorso appunto ad un sinodo, non convocato dal papa, almeno per giudicare la controversia su quale sia il papa legittimo.  
 
Argomenti importanti, ma non per questo esenti da risvolti problematici, vennero sostenuti da due teologi tedeschi di spicco, Konrad von Gelnhausen (1320ca-1390), con l'Epistola concordiæ, e Heinrich von Langenstein (1325-1397), con l'Epistola Pacis.  
 
Già dai titoli delle lettere si comprende che si è trattato di uno sforzo sincero di risolvere una situazione puntuale profondamente lacerante per la Chiesa, e non di teorie generali sulla restrizione (o l'azzeramento, come nel caso di Marsilio) della plenitudo potestatis del papa.  
 
Eppure, era chiaro che la ricerca di una soluzione applicabile nella circostanza del Grande Scisma non poteva non sconfinare in principi più generali. Si pensi, per esempio, al fatto della convocazione stessa di un concilio che avrebbe dovuto portare alla rinuncia dei “tre papi” per poter eleggere un nuovo papa, e che pertanto non poteva essere indetto dal papa stesso: è possibile convocare un concilio ecumenico, con decisioni vincolanti per la Chiesa universale, senza che sia il papa a riunirlo e senza che il papa vi partecipi, se non come “imputato”?  
 
I due teologi tedeschi giustificarono l'indizione di un concilio senza papa rifacendosi a due principi: la necessità communis et generalis della Chiesa e il principio di epicheia.  
 
Lo stato di necessità consentirebbe di violare una legge ordinaria, altrimenti vincolante, mentre l'epicheia permetterebbe di andare contro la lettera della legge, per seguire invece la mens del legislatore, in situazioni eccezionali, imprevedibili da parte del legislatore.  
 
Il punto decisivo doveva però trovare ancora una risposta: chi ha l'autorità di convocare un concilio ecumenico, e dunque validarne i decreti, se non il papa? Detta diversamente: a chi Dio avrebbe conferito quella plenitudo potestatis, che sappiamo essere prerogativa del primato, che appartiene al solo successore di Pietro?  
 
Konrad von Gelnhausen e Heinrich von Langenstein, dovendo mettere da parte, in quella situazione, il papa, avevano una sola soluzione “obbligata”: questa potestà suprema apparteneva alla Chiesa universale, riunita in concilio, e tale potestà veniva data al concilio direttamente da Gesù Cristo, Capo invisibile della Chiesa, saltando la mediazione del romano pontefice, Capo visibile della Chiesa.  
 
I due teologi tedeschi ritennero che la Chiesa in situazione di scisma sarebbe paragonabile alla Chiesa in situazione di sede vacante, in attesa dell'elezione di un nuovo pontefice: come nel secondo caso la Chiesa continua a sussistere anche senza il Capo visibile, sostenuta dal Capo invisibile, così, nella situazione di dubbio sul papa legittimo, sarebbe Cristo stesso a supplire alla mancanza del papa.  
 
Restano seri dubbi sugli argomenti: anzitutto perché necessità ed epicheia si applicano alle leggi ecclesiastiche o umane, non alle leggi divine positive. In altri termini, la Chiesa non ha il potere di attribuire ad un concilio quello che Dio ha concesso al solo papa; né si può presumere che Cristo stesso conceda questa potestas al concilio.  
 
Poi l'analogia tra scisma per la presenza di “più papi” e sede vacante non regge: nel primo caso il papa esiste, ma non è chiaro chi sia; nel secondo caso, il papa non c'è affatto.  
 
Tuttavia, i due autori restrinsero di molto il proprio conciliarismo, precisando che questo concilio senza papa non doveva essere pensato come organo permanente di supplenza del papa, ma come organo straordinario per dirimere solamente la questione della legittimità del papa.  
 
Gli atti di quel concilio straordinario avrebbero poi dovuto essere approvati, come di consueto, dal papa legittimo per avere valore su tutta l'ecumene; una volta eletto il nuovo papa o eventualmente riconosciuto quello legittimo, questi avrebbe quindi dovuto accedere al concilio e presiederlo.  
 
Sembra che sia soprattutto questa posizione ad aver trovato concretizzazione nel decreto Hæc sancta, o meglio, nell'interpretazione data a quel decreto. Ma non sono mancate interpretazioni decisamente più allargate. Avremo modo di ritornarci.  
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Il Concilio dibattuto

 
Il punto più controverso del Concilio di Costanza è stato, e continua ad essere, quel passaggio del decreto Hæc sancta, che pone l'autorità di un concilio al di sopra di quella del papa: «[Questo santo Sinodo di Costanza] in primo luogo dichiara che esso, legittimamente riunito nello Spirito Santo, essendo concilio generale e rappresentando la Chiesa cattolica militante, riceve il proprio potere direttamente dal Cristo e che chiunque, di qualunque condizione e dignità, compresa quella papale, è tenuto ad obbedirle in ciò che riguarda la fede e l'estirpazione dello scisma e la riforma generale nel capo e nelle membra della chiesa di Dio».  
 
Si noti anche l'affermazione di un'autorità direttamente ricevuta da Cristo, senza alcun coinvolgimento dell'autorità petrina. Si tratta di un testo chiaramente contrario al senso cattolico del primato petrino e pertanto occorre verificare quale effettiva autorità abbia avuto questo decreto.  
 
Alcuni teologi, tra i quali il più noto è certamente Hans Küng, hanno sostenuto e sostengono che, in quella dichiarazione, i Padri riuniti a Costanza volessero insegnare dogmaticamente la superiorità del concilio sul papa. E che, pertanto, si tratterebbe di una verità di fede.  
 
Nel mondo ortodosso si guarda a questo decreto come alla testimonianza che nel mondo cattolico ancora si professava la presunta superiorità dell'assise conciliare, prima che venisse respinta, quattro secoli dopo, dal Concilio Vaticano I.  
 
Secondo altri, il decreto Haec sancta sarebbe l'esempio storico del fatto che un concilio possa insegnare un'eresia. Altri ancora, ritengono che la natura del documento – un decreto, appunto – riveli la natura giuridica, contingente e non dogmatica del pronunciamento.  
 
È innegabile che il Concilio di Costanza vide confluire i fermenti dei decenni precedenti, che puntavano a ridurre la plenitudo potestatis del papa (vedi qui).  
 
Nella prossimità temporale del Concilio del 1414, Teodorico di Nieheim (1345-1418), dapprima segretario di Urbano VI per poi diventare notaio alla corte papale avignonese, presente al Concilio di Costanza, nel suo De modis uniendiæ reformandi ecclesiam, avanzava una richiesta eloquente: «Il Concilio generale... delimiti e determini la potestà papale coattiva e usurpata». Eco del bisogno vivissimo di mettere un argine all'abuso di potere dei pontefici dell'epoca, ma anche premesse per una pericolosa deviazione dogmatica.  
 
Un altro personaggio di grande caratura intellettuale cavalcava l'idea di un ridimensionamento del papato: si tratta del cardinale Pierre d'Ailly (1350-1420), determinante durante il Concilio per l'elezione di Martino V e la condanna di Jan Hus.  
 
Pierre d'Ailly sosteneva la superiorità del concilio sul papa, argomentando che la Chiesa non è affatto fondata su Pietro e i suoi successori, ma su Gesù Cristo. Per questa ragione, non è al papa, ma alla Chiesa, riunita in concilio, che spetta la pienezza della potestà, di cui il vescovo di Roma fa parte, sebbene come principalis inter ministros.  
 
Ma essendo questo ruolo principiale in funzione del bene della Chiesa, il papa diviene soggetto al concilio in caso di eresia, di atti contrari al bene della Chiesa o in caso di crimine pubblico.  
 
Una grande influenza ebbe anche la posizione di Jean de Gerson (1363-1429), cancelliere dell'Università di Parigi dal 1395, uno dei tre “papabili” padri dell'Imitazione di Cristo e famoso teologo dell'epoca.  
 
Anch'egli ricalcava la posizione di Pierre d'Ailly, ampliando però i casi in cui il concilio possa agire da solo, senza la presenza o il consenso del papa (pazzia, sede impedita). La visione ecclesiologica di Gerson vedeva il concilio come detentore di tutta la potestas della Chiesa, partecipata poi in diversi gradi dal papa fino ai parroci.  
 
Dunque il potere del papa sarebbe il più alto, ma pur sempre parte di un potere ecclesiale più ampio, che trova nel concilio la sua istanza suprema, sebbene non ordinaria.  
 
Tutti questi personaggi furono presenti al Concilio di Costanza e finirono per esercitarvi una forte influenza, di cui la Hæc sancta è testimonianza eloquente.  
 
Tuttavia, ancora non è chiaro se la dichiarazione sia stata recepita da papa Martino V (1369-1431), dalla cui approvazione, in una corretta visione ecclesiologica, dipende infatti l'autorità vincolante per tutta la Chiesa di ogni decisione di quel concilio.  
 
Cerchiamo di capire meglio. La Hæc sancta appartiene alle prime fasi, le più concitate, del concilio, in specifico alla IV e alla V sessione, quando ancora né l'unico papa legittimo, Gregorio XII, né l'antipapa Benedetto XIII avevano confermato il concilio.  
 
L'altro antipapa, Giovanni XXIII, che pure quel concilio aveva voluto, proprio durante queste due sessioni cercò di fuggire, odorando una sua prossima condanna. L'approvazione di Gregorio arrivò solo a partire dalla XIV sessione, e si estendeva a tutte quelle decisioni utili «per l'unione e la riforma della Chiesa e per l'estirpazione dell'eresia».  
 
Dunque, perché il decreto Hæc sancta abbia rilevanza ecumenica, essendo stato votato prima della sessione XIV, sarebbe necessaria l'approvazione del papa uscito dal concilio, ossia Martino V.  
 
Secondo la ricostruzione dell'oratoriano Alfred-Henri-Marie Baudrillart (1859-1942), poi cardinale, questa approvazione non si verificò. Vediamo la sua argomentazione.  
 
Il testo della bolla papale Inter cunctas ha indotto molti a pensare che l'approvazione di Martino V si estendesse a tutte le sessioni del concilio, incluse dunque la IV e la V (e dunque anche al decreto in questione).  
 
Ma il papa, nella bolla, adoperò volutamente una formula vaga, approvando quel che il concilio aveva deciso in favorem fidei et ad salutem animarum.  
 
Questa espressione permetteva di far credere ai padri presenti a Costanza favorevoli al conciliarismo che tutto quanto era stato deciso nelle varie sessioni era stato approvato dal papa.  
 
In questo modo, papa Martino riuscì ad evitare di creare tumulti e nuove divisioni in quel concilio che era stato convocato per riportare unione nella Chiesa, dopo quarant'anni di scismi.  
 
Ma questa formula poteva essere intesa nel senso che in tale approvazione papale non erano incluse quelle decisioni che risultavano tutt'altro che in favore della fede e della salvezza delle anime, come appunto il decreto Hæc sancta.  
 
La ricercata ambiguità del linguaggio della Inter cunctas dev'essere compresa nel contesto: un'opposizione del papa al decreto avrebbe immediatamente riaperto uno scisma, che si era appena risanato, ma nel contempo un'approvazione “totale” del concilio era impossibile, perché avrebbe incluso l'errore del conciliarismo.  
 
Simile escamotage venne utilizzato nella “seconda approvazione” del concilio da parte di Martino V, durante la XLV sessione. Egli utilizzò l'avverbio conciliariter, affermando di approvare quanto i padri avevano deciso conciliariter.  
 
Ma, quanto deciso durante le prime sessioni, tra cui la IV e V, non fu approvato conciliarmente. Il decreto venne infatti approvato assenti diversi cardinali, senza suffragio e con il voto di persone che non godevano di tale diritto.  
 
Fu infatti una deliberazione delle nazioni (nationaliter) – ossia raggruppamenti di vescovi e periti raggruppati appunto in base alla provenienza –, fatta al di fuori dell'assemblea vera e propria (conciliariter).  
 
Dunque, la dubbia legittimità delle prime sessioni, l'effettiva mancanza di conciliarità durante l'approvazione della Hæc sancta, e il contenuto tutt'altro che in favore della fede permettono di affermare che il decreto non ricevette l'autorizzazione del papa.  
 
Quello che avverrà in seguito, come avremo modo di vedere, confermerà che né Martino V né i suoi successori intesero mai recepire la dottrina della superiorità del concilio sul papa.  
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Verso un Concilio scismatico

 
«Chi vorrebbe fondare la stabilità della Chiesa sull'infermità di Pietro?». Questo interrogativo è attribuito al cardinale Pierre d'Ailly, maestro della Sorbona e tra i principali protagonisti del Concilio di Costanza (1414-1418).  
 
Una domanda condivisa da molti cattolici del XV secolo, che trova la sua collocazione storica nell'esperienza effettiva che il mondo cristiano stava facendo della fragilità caratteriale, morale, politica, dottrinale dei successori di Pietro.  
 
L'interrogativo lascia facilmente intravedere la volontà di trovare una soluzione “umana” al problema del primato petrino, quando ad essere papa è una persona manifestamente incapace e/o indegna. E questa soluzione “umana” storicamente si può concretizzare in tre forme fondamentali:  
 
1. cercare di esautorare quel preciso papa, mettendone in dubbio l'elezione, opzione che inevitabilmente si pone all'origine di scismi;  
 
2. mettere in stand-by, senza negarla, la costituzione divina del papato, agendo di fatto come se il papa non ci fosse e finendo per arrogarsene le prerogative, creando nuovamente uno scisma di fatto;  
 
3. ridimensionare questo primato, tale da renderlo compatibile con l'intervento di un'autorità ritenuta superiore, che sappia esibire autorevolezza e competenza per “contenere” il papa ed eventualmente deporlo, in vista del bene della Chiesa. Opzione foriera di scisma e di eresia, che fu abbracciata da molti prima, durante e dopo il Concilio di Costanza.  
 
Quest'ultimo aveva di fatto dimostrato di essere stato capace di risolvere lo scisma d'Occidente, ridando alla Chiesa un solo papa. Dunque, non se ne poteva legittimamente ricavare l'insegnamento della superiorità del concilio sul papa? Non era quel concilio la prova della bontà di tale primazia?  
 
Si è visto come Martino V abbia cercato di dare il proprio avallo agli atti del Concilio di Costanza, prendendo però nel contempo le distanze da un'approvazione in toto (vedi qui), pur senza esporsi eccessivamente: il rischio che i fuochi dello scisma si riattizzassero immediatamente era molto concreto, e una presa di distanza esplicita del papa dal concilio avrebbe rappresentato un pericoloso innesco.  
 
La sua azione si portò più chiaramente verso la direzione di una difesa del papato, riconsegnando la Sede petrina a Roma, rafforzando il collegio cardinalizio e cercando di difendere nelle varie nazioni il prestigio della Sede apostolica.  
 
Tra le nomine più importanti, ci fu l'elevazione a cardinale di Giuliano Cesarini (1398-1444), poi inviato in Germania per contenere il vento di “riforma” alimentato dagli hussiti.  
 
Martino V fu altresì abile nel gestire il decreto Frequens, approvato il 9 ottobre 1417, il quale, sulla base dell'ideologia conciliarista, stabiliva che il modo migliore per governare la Chiesa era quello di convocare con regolare periodicità un concilio: il primo a cinque anni dalla chiusura di quello di Costanza, il secondo sette anni dopo, per poi avere una cadenza regolare di un concilio ogni decennio.  
 
Il papa convocò puntualmente un concilio nel 1423 a Pavia, poi trasferitosi a Siena anche a causa di una pestilenza nella pianura lombarda, ma, grazie alla sua abilità, quel concilio non si trasformò nel trionfo del conciliarismo.  
 
Martino V riuscì a contrapporvi un nutrito numero di oppositori, così che il concilio, non annoverato tra i 21 ecumenici riconosciuti dalla Chiesa cattolica, venne chiuso nemmeno un anno dopo la sua convocazione, con un pugno di decreti “indolori”, che confermavano la condanna, già presente a Costanza, dei seguaci di Jan Hus e John Wyclif e che domandavano di aprire un confronto con le Chiese orientali. Nulla di più.  
 
Nel frattempo, il 23 maggio 1423, moriva anche l'antipapa Benedetto XIII, il quale, dopo la convocazione del Concilio di Costanza, da lui rifiutato, era rimasto di fatto senza significativi sostenitori.  
 
I conciliaristi però sapevano che una nuova “scadenza” li attendeva; secondo quanto disposto dal decreto Firmiter, un nuovo concilio era all'orizzonte a breve: la data era quella del 1431.  
 
Martino V aveva cercato di temporeggiare il più possibile, ma nuove minacce di scisma bussavano alla sua porta, pronte a concretizzarsi qualora egli non avesse mantenuto fede alla convocazione di un concilio.  
 
Sembra che la mattina dell'8 novembre 1430 la città di Roma si fosse svegliata zeppa di manifesti, nei quali si cercava di intimidire il papa, promettendo che un nuovo concilio sarebbe stato comunque convocato, ma con lo scopo di deporre il papa regnante.  
 
Martino V cercò ancora una volta una soluzione che conservasse l'unione nella Chiesa, ma che mettesse nel contempo al sicuro il primato dei successori di Pietro: scelse come sede del nuovo concilio la città di Basilea, decise che a presiedere l'assise fosse il fedele cardinale Cesarini, al quale concesse anche l'autorità di poter decidere per la dissoluzione del concilio o il suo trasferimento in altra sede, qualora avesse preso una piega indesiderata.  
 
Il 20 febbraio 1431, Martino V consegnò in modo improvviso la sua anima a Dio, per un'ischemia cerebrale. A succedergli fu il cardinale veneziano Gabriele Condulmer, che prese il nome di Eugenio IV (1383-1447).  
 
Un'elezione che egli dovette pagare a caro prezzo: i cardinali avevano infatti imposto al futuro papa che ogni sua decisione sarebbe dovuta avvenire con il consenso del Sacro Collegio.  
 
Un'imposizione che si può ritenere come l'espressione di una doppia diffidenza dei cardinali: nei confronti del papa e nei confronti del concilio ormai venturo; un tentativo di controllare l'uno e l'altro, per evitare stranezze del primo e affermazioni conciliariste del secondo.  
 
Alla vigilia del Concilio di Basilea si era dunque creata una situazione pericolosa: Eugenio IV non voleva appoggiare alcuna deriva conciliarista e mal digeriva la concessione fatta ai cardinali; questi ultimi non si fidavano del papa e ancor meno del concilio; gli esponenti conciliaristi non aspettavano altro che mettere finalmente una pietra sopra il primato di Pietro e la centralità romana, concretizzata nel Sacro Collegio. Tutto era pronto perché un nuovo scisma scoppiasse.  
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Il Concilio di Basilea e il nuovo scisma

 
Il nuovo papa, Eugenio IV (1383-1447), era un uomo fedele: fedele alla vita sacerdotale, ai cui impegni non derogò mai, e fedele ai due papi che aveva servito in tempi oltremodo difficili e turbolenti per oltre vent'anni, ossia Gregorio XII e Martino V.  
 
Al conclave che lo aveva eletto, aveva dovuto promettere una sottomissione al Sacro Collegio, il quale – come visto nell'articolo precedente – voleva esercitare un controllo sia sul concilio ormai prossimo, sia sul papa stesso. Ma di fatto, papa Eugenio aveva ben vivo il senso del primato del vescovo di Roma, e non si lasciò sottomettere dai cardinali.  
 
Il concilio che era stato convocato da Martino V poco prima della sua morte, si aprì a Basilea nel marzo del 1431, ma di fatto rivelò subito i tratti di un conciliabolo, dove i vescovi erano pressoché assenti (presenti solo 14) e lo stesso cardinale Cesarini, che Martino V aveva scelto per presiedere il concilio venturo, non era presente, impegnato a tenere a bada il movimento hussita.  
 
Si trattava in sostanza di un gruppetto di abati e chierici, che avevano autoproclamato il loro concilio come ecumenico, senza alcuna approvazione del papa. Da che parte si sarebbe andati a parare, lo si poteva comprendere facilmente.  
 
E infatti Eugenio IV lo capì. Con una lettera del 18 dicembre 1431 dichiarò sciolta l'assise conciliare. Fu un intervento energico, ma troppo diretto, perché inevitabilmente finì per provocare una sollevazione contro il Papa, considerato semplicemente come refrattario alle riforme, quella sollevazione foriera di un nuovo scisma che Martino V aveva cercato di evitare in ogni modo (vedi qui e qui).  
 
E infatti i presenti al Concilio attaccarono frontalmente il Papa: confermarono i decreti delle prime sessioni del Concilio di Costanza, non approvate da Martino V, per ribadire la sottomissione del Papa al concilio e dichiararono che il concilio non può essere sciolto o trasferito se non per deliberazione del concilio stesso.  
 
Proibirono inoltre a chiunque di abbandonare la città di Basilea prima della chiusura del sinodo. L'intervento del Papa ebbe, tra l'altro, l'effetto opposto, cioè quello di risvegliare interesse e simpatia verso un concilio che era rimasto periferico: vari principi, i re di Francia e d'Inghilterra e persino l'imperatore ora incoraggiavano l'assise a proseguire; le università europee – quelle università così zelanti nel sostenere il conciliarismo – appoggiarono la presa di posizione dei padri di Basilea; persino alcuni cardinali, fino ad allora assenti, decisero di prendere parte al concilio.  
 
La mossa imprudente di Eugenio IV aveva portato chiaramente alla luce che il decreto Haec sancta (vedi qui) era stato recepito da moltissimi come l'effettivo riconoscimento da parte della Chiesa della superiorità del concilio sul papa, e non come un’ammonizione perentoria, dovuta alla situazione particolarmente grave che si protraeva da decenni.  
 
Le teorie conciliariste, risposta sbagliata ad un problema reale, si erano protratte ormai da troppo tempo e si erano radicate anche tra i migliori intellettuali e teologi, come Nicola Cusano (1401-1464), che più tardi verrà creato cardinale.  
 
Cusano aveva dedicato le sue prime opere “di gioventù” – il De concordantia catholica e il De maioritate auctoritatis sacrorum conciliorum supra auctoritatem papae, entrambe del 1433, dunque in pieno svolgimento del concilio – proprio ad espandere l'autorità del concilio e restringere quelle del romano pontefice.  
 
Eugenio IV reagì con due bolle che intendevano annullare tutte le decisioni prese a Basilea. Il concilio reagì pesantemente: ribadì i decreti problematici di Costanza, confermò le proprie decisioni e diede l'ultimatum al papa: se non si fosse recato a Basilea sarebbe stato deposto.  
 
Di fronte ad un imminente scisma, supplicato da coloro che più gli erano vicini, incluso l'imperatore Sigismondo, il Papa decise di cercare una mediazione, emanando una nuova bolla, la Dudum sacrum (1 agosto 1433), con la quale autorizzava il proseguimento del concilio, ma con riserva sui suoi decreti. Riserva che non venne ben accolta.  
 
L'invasione dello Stato pontificio da parte di Filippo Maria Visconti (1392-1447) costrinse il Papa alla fuga da Roma e lo fece capitolare per un momento di fronte al concilio: una nuova bolla, con lo stesso nome della precedente (15 dicembre 1433), accettava quanto deciso dal concilio e ne ammetteva la prosecuzione.  
 
In cambio, i padri riuniti a Basilea ritirarono le procedure contro il Papa, esigendo dai suoi legati che promettessero fedeltà all'assise, che obbedissero alle sue decisioni e che sottoscrivessero che ogni concilio riceveva la sua autorità direttamente da Cristo, senza la mediazione papale.  
 
Fu proprio nel momento della maggior debolezza del papato, capitolato ed esule, che il quadro cambiò. Nel 1433, il concilio di Basilea aveva messo sul tavolo l'importantissima questione dell'unione con le Chiese greche. Eugenio IV fu abile nel fare propria questa nuova causa, per la quale indisse un nuovo concilio, che si sarebbe dovuto tenere a Ferrara. La maggioranza dei presenti a Basilea decise invece che la riunione doveva tenersi nella città svizzera.  
 
Si arrivò quasi alle mani. Il Papa ordinò così che sul Concilio di Basilea calasse il sipario, spostando gli interessi dei vescovi verso la nuova questione della riunificazione con i greci. La scelta del Papa creò attorno a lui un nuovo consenso. Anche perché i legati greci, che si erano recati a Basilea, dovettero toccare con mano il clima di conflitto e anarchia che vi regnava. Decisero così di abbandonare l'assise e recarsi direttamente da Eugenio IV, che risiedeva a Bologna, sostenendo la sua proposta per il nuovo sinodo.  
 
Fu uno smacco per la maggioranza presente a Basilea, che reagì richiamando nuovamente il Papa “a giudizio”. Questa volta Eugenio IV tirò dritto: diede ancora trenta giorni di tempo a quel concilio per chiudere la questione degli hussiti e convocò quello di Ferrara, per l'8 gennaio 1437.  
 
Anche la resistenza di Basilea, ormai costituita prevalentemente da accademici e preti (come lo era stata già dall'inizio), continuò per la propria strada: si ebbero così due concili contrapposti e una nuova divisione nella Chiesa. E ancora due papi. I resistenti di Basilea giunsero a dichiarare scismatico il nuovo Concilio di Ferrara, ed eretico Eugenio IV, in quanto rifiutava la dottrina del primato del concilio, considerata di fede cattolica.  
 
Il Papa fu per questo deposto e un nuovo conclave, presente il solo cardinale Louis d'Aleman (ca 1390-1450), elesse un antipapa, Amedeo VIII di Savoia (1383-1451), che prese il nome di Felice V. E che ebbe “l’onore” di essere l'ultimo antipapa della storia della Chiesa (almeno, fino ad ora).  
 
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Fonti :  
 
Fonte "Il conciliarismo"  
Fonte "Il Concilio dibattuto"  
Fonte "Verso un Concilio scismatico"  
Fonte "Il Concilio di Basilea e il nuovo scisma"  
 
2024-04-07
Autore : Luisella Scrosati Fonte : La Nuova Bussola Quotidiana
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