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Il sogno dei 9 anni di San Giovanni Bosco
Racconto e commento teologico, alle sorgenti del carisma salesiano.  
 
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Il sogno dei 9 anni (dipinti di Nino Musio, Elledici)

Il sogno dei 9 anni

 
«All'età di nove anni circa ho fatto un sogno che mi rimase profondamente impresso per tutta la vita.  
 
Nel sonno mi parve di essere vicino a casa, in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli che si trastullavano.  
 
Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. All'udire quelle bestemmie mi sono subito slanciato in mezzo di loro, adoperando pugni e parole per farli tacere.  
 
In quel momento apparve un Uomo venerando, in età virile, nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarla.  
 
Egli mi chiamò per nome, e mi ordinò di pormi alla testa di quei fanciulli, aggiungendo queste parole:  
 
- Non colle percosse, ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti dunque immediatamente a far loro un'istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.  
 
Confuso e spaventato soggiunsi che io ero un povero ed ignorante fanciullo, incapace di parlare di religione a quei giovanetti. In quel momento quei ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava.  
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Il sogno dei 9 anni (dipinti di Nino Musio, Elledici)

Quasi senza sapere che mi dicessi:  
- Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa impossibile?  
 
- Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili con l'obbedienza e con l'acquisto della scienza.  
 
- Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?  
 
- Io ti darò la Maestra, sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza.  
 
- Ma chi siete voi che parlate in questo modo?  
 
- Io sono il Figlio di Colei che tua madre ti ammaestrò di salutare tre volte al giorno.  
 
- Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome.  
 
- Il mio nome domandalo a mia madre.  
 
In quel momento vidi accanto a lui una Donna di maestoso aspetto, vestita di un manto che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella.  
 
Scorgendomi ognor più confuso nelle mie domande e risposte, mi accennò di avvicinarmi a Lei, che presomi con bontà per mano:  
 
- Guarda! - mi disse.  
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Il sogno dei 9 anni (dipinti di Nino Musio, Elledici)

Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, di orsi e di parecchi altri animali.  
 
- Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare, continuò a dire quella Signora. Renditi umile, forte, robusto: e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei.  
 
Volsi allora lo sguardo, ed ecco, invece di animali feroci, apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando, come per far festa a quell'Uomo e a quella Signora.  
 
A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quella Donna a voler parlare in modo da capire, perciocchè io non sapeva quale cosa si volesse significare. Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi:  
 
- A suo tempo tutto comprenderai.  
 
Ciò detto, un rumore mi svegliò, ed ogni cosa disparve. Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi dolesse per gli schiaffi ricevuti da que’ monelli; di poi quel Personaggio, quella Donna, le cose dette e quelle udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu più possibile prendere sonno».  
 
Sac. Giovanni Bosco  
 
Fonte  
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Lettura teologica del sogno dei 9 anni di don Bosco. Prof. don Andrea Bozzolo. Conferenza tenuta il 15 gennaio 2024 nella Basilica di Maria Ausiliatrice a Torino  
 

Il sogno che fa sognare

 
Un commento ai temi teologico-spirituali presenti nel sogno dei nove anni potrebbe avere sviluppi tanto ampi da includere una trattazione a tutto campo della “salesianità”. Letto, infatti, a partire dalla sua storia degli effetti, il sogno apre innumerevoli piste di approfondimento dei tratti pedagogici e apostolici che hanno caratterizzato la vita di san Giovanni Bosco e l’esperienza carismatica che da lui ha preso origine. Scegliamo di concentrare l’attenzione su cinque piste di riflessione spirituale che riguardano rispettivamente (1) la missione oratoriana, (2) la chiamata all’impossibile, (3) il mistero del Nome, (4) la mediazione materna e, infine, (5) la forza della mansuetudine.  
 
1. La missione oratoriana  
 
Il sogno dei nove anni è pieno di ragazzi. Essi sono presenti dalla prima all’ultima scena e sono i beneficiari di tutto ciò che avviene. La loro presenza è caratterizzata dall’allegria e dal gioco, che sono tipici della loro età, ma anche dal disordine e da comportamenti negativi.  
 
I fanciulli non sono dunque nel sogno dei nove anni l’immagine romantica di un’età incantata, non ancora toccata dai mali del mondo, né corrispondono al mito postmoderno della condizione giovanile, come stagione dell’agire spontaneo e della perenne disponibilità al cambiamento, che dovrebbe essere conservata in un’eterna adolescenza.  
 
I ragazzi del sogno sono straordinariamente “veri”, sia quando appaiono con la loro fisionomia, sia quando sono raffigurati simbolicamente sotto forma di animali. Essi giocano e bisticciano, si divertono ridendo e si rovinano bestemmiando, proprio come avviene nella realtà.  
 
Non paiono né innocenti, come li immagina una pedagogia spontaneista, né capaci di fare da maestri a sé stessi, come li ha pensati Rousseau. Dal momento in cui appaiono, in un “cortile assai spazioso”, che fa presagire i grandi cortili dei futuri oratori salesiani, essi invocano la presenza e l’azione di qualcuno.  
 
Il gesto impulsivo del sognatore, però, non è l’intervento giusto; è necessaria la presenza di un Altro.  
 
Con la visione dei fanciulli s’intreccia l’apparizione della figura cristologica, come ormai possiamo apertamente chiamarla. Colui che nel Vangelo ha detto: «Lasciate che i bambini vengano a me» (Mc 10,14), viene a indicare al sognatore l’atteggiamento con cui i ragazzi vanno avvicinati e accompagnati.  
 
Egli appare maestoso, virile, forte, con tratti che ne evidenziano chiaramente il carattere divino e trascendente; il suo modo di agire è contrassegnato da sicurezza e potenza e manifesta una piena signoria sulle cose che avvengono.  
 
L’uomo venerando, però, non incute paura, ma anzi porta la pace dove prima c’era confusione e schiamazzo, manifesta benevola comprensione nei confronti di Giovanni e lo orienta su una via di mansuetudine e carità.  
 
La reciprocità tra queste figure – i ragazzi da una parte e il Signore (cui si aggiunge poi la Madre) dall’altra – definisce i contorni del sogno.  
 
Le emozioni che Giovanni prova nell’esperienza onirica, le domande che pone, il compito che è chiamato a svolgere, il futuro che gli si apre davanti sono totalmente vincolati alla dialettica tra questi due poli.  
 
Forse il messaggio più importante che il sogno gli trasmette, quello che probabilmente ha capito per primo perché gli è rimasto impresso nell’immaginazione, prima ancora di comprenderlo in modo riflesso, è che quelle figure si richiamano a vicenda e che egli per tutta la vita non potrà più dissociarle.  
 
L’incontro tra la vulnerabilità dei giovani e la potenza del Signore, tra il loro bisogno di salvezza e la sua offerta di grazia, tra il loro desiderio di gioia e il suo dono di vita devono diventare ormai il centro dei suoi pensieri, lo spazio della sua identità.  
 
La partitura della sua vita sarà tutta scritta nella tonalità che questo tema generatore gli consegna: modularlo in tutte le sue potenzialità armoniche sarà la sua missione, in cui dovrà riversare tutte le sue doti di natura e di grazia.  
 
Il dinamismo della vita di Giovanni si prospetta dunque nel sogno-visione come un movimento continuo, una sorta di andirivieni spirituale, tra i ragazzi e il Signore.  
 
Dal gruppo di fanciulli in mezzo a cui si è buttato con impeto Giovanni deve lasciarsi attirare al Signore che lo chiama per nome, per poi ripartire da Colui che lo invia e andare a mettersi, con ben altro stile, alla testa dei compagni.  
 
Anche se dai ragazzi riceve in sogno pugni così forti, da sentirne il male ancora al risveglio, e dall’uomo venerando ascolta parole che lo lasciano interdetto, il suo andare e venire non è un viavai inconcludente, ma un percorso che gradualmente lo trasforma e fa arrivare ai giovani un’energia di vita e di amore.  
 
Che tutto ciò avvenga in un cortile è altamente significativo e ha un chiaro valore prolettico, poiché della missione di don Bosco il cortile oratoriano diventerà il luogo privilegiato e il simbolo esemplare.  
 
Tutta la scena è collocata in quest’ambiente, insieme vasto (cortile assai spazioso) e familiare (vicino a casa).  
 
Il fatto che la visione vocazionale non abbia come sfondo un luogo sacro o uno spazio celeste, ma l’ambiente in cui i ragazzi vivono e giocano, indica chiaramente che l’iniziativa divina assume il loro mondo come luogo dell’incontro.  
 
La missione che viene affidata a Giovanni, anche se è chiaramente indirizzata in senso catechetico e religioso («fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e la preziosità della virtù»), ha come proprio habitat l’universo dell’educazione.  
 
L’associazione della figura cristologica con lo spazio del cortile e le dinamiche del gioco, che certamente un ragazzo di nove anni non può aver “costruito”, costituisce una trasgressione dell’immaginario religioso più consueto, la cui forza ispiratrice è pari alla profondità misterica.  
 
Essa infatti sintetizza in sé tutta la dinamica del mistero dell’incarnazione, per cui il Figlio prende la nostra forma per poterci offrire la sua, e mette in luce come non vi sia nulla di umano che debba essere sacrificato per far spazio a Dio.  
 
Il cortile dice dunque la vicinanza della grazia divina al “sentire” dei ragazzi: per accoglierla non occorre uscire dalla propria età, trascurarne le esigenze, forzarne i ritmi.  
 
Quando don Bosco, ormai adulto, scriverà nel Giovane provveduto che uno degli inganni del demonio è far pensare ai giovani che la santità sia incompatibile con la loro voglia di stare allegri e con l’esuberante freschezza della loro vitalità, non farà che restituire in forma matura la lezione intuita nel sogno e divenuta poi un elemento centrale del suo magistero spirituale.  
 
Il cortile dice allo stesso tempo la necessità di intendere l’educazione a partire dal suo nucleo più profondo, che riguarda l’atteggiamento del cuore verso Dio.  
 
Lì, insegna il sogno, non vi è solo lo spazio di un’apertura originaria alla grazia, ma anche l’abisso di una resistenza, in cui si annida la bruttezza del male e la violenza del peccato.  
 
Per questo l’orizzonte educativo del sogno è francamente religioso, e non solo filantropico, e mette in scena la simbolica della conversione, e non solo quella dello sviluppo di sé.  
 
Nel cortile del sogno, colmo di ragazzi e abitato dal Signore, si dischiude dunque a Giovanni quella che sarà in futuro la dinamica pedagogica e spirituale dei cortili oratoriani.  
 
Di essa vogliamo ancora sottolineare due tratti, chiaramente evocati nelle azioni che nel sogno compiono i fanciulli prima, e gli agnelli mansueti poi.  
 
Il primo tratto va ravvisato nel fatto che i ragazzi «cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava».  
 
Questo tema del “radunarsi” è una delle matrici teologiche e pedagogiche più importanti della visione educativa di don Bosco.  
 
In una celebre pagina scritta nel 1854, l’Introduzione al Piano di Regolamento per l’Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Torino nella regione Valdocco, egli presenta la natura ecclesiale e il senso teologico dell’istituzione oratoriana citando le parole dell’evangelista Giovanni: «Ut filios Dei, qui erant dispersi, congregaret in unum» (Gv 11,52).  
 
L’attività dell’Oratorio è così posta sotto il segno del raduno escatologico dei figli di Dio che ha costituito il centro della missione del Figlio di Dio:  
Le parole del santo Vangelo che ci fanno conoscere essere il divin Salvatore venuto dal cielo in terra per radunare insieme tutti i figliuoli di Dio, dispersi nelle varie parti della terra, parmi che si possano letteralmente applicare alla gioventù de’ nostri giorni.  
La gioventù, «questa porzione la più delicata e la più preziosa dell’umana Società», si trova spesso a essere dispersa e sbandata per il disinteresse educativo dei genitori o per l’influenza di cattivi compagni.  
 
La prima cosa da fare per provvedere all’educazione di questi giovani è proprio «radunarli, loro poter parlare, moralizzarli».  
 
In queste parole dell’Introduzione al Piano di Regolamento l’eco del sogno, maturata nella coscienza dell’educatore ormai adulto, è presente in modo chiaro e riconoscibile. L’oratorio vi è presentato come una gioiosa “radunanza” dei giovani intorno all’unica forza calamitante in grado di salvarli e di trasformarli, quella del Signore: «Sono questi oratori certe radunanze in cui si trattiene la gioventù in piacevole ed onesta ricreazione, dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa».  
 
Fin da bambino, infatti, don Bosco ha capito che «questa fu la missione del figliuolo di Dio; questo può solamente fare la santa sua religione».  
 
Il secondo elemento che diventerà un tratto identitario della spiritualità oratoriana è quello che nel sogno si rivela attraverso l’immagine degli agnelli che corrono «per fare festa a quell’uomo e a quella signora».  
 
La pedagogia della festa sarà una dimensione portante del sistema preventivo di don Bosco, che vedrà nelle numerose ricorrenze religiose dell’anno l’occasione per offrire ai ragazzi la possibilità di respirare a pieni polmoni la gioia della fede.  
 
Don Bosco saprà coinvolgere entusiasticamente la comunità giovanile dell’oratorio nella preparazione di eventi, rappresentazioni teatrali, ricevimenti che permettono di fornire uno svago rispetto alla fatica del dovere quotidiano, di valorizzare i talenti dei ragazzi per la musica, la recitazione, la ginnastica, di orientare la loro fantasia in direzione di una creatività positiva.  
 
Se si tiene conto che l’educazione proposta negli ambienti religiosi dell’Ottocento aveva solitamente un tenore piuttosto austero, che sembrava presentare come ideale pedagogico da raggiungere quello di una devota compostezza, le sane baraonde festive dell’oratorio si stagliano come espressione di un umanesimo aperto a cogliere le esigenze psicologiche del ragazzo e capace di assecondare il suo protagonismo.  
 
L’allegria festosa che segue alla metamorfosi degli animali del sogno è dunque ciò cui deve mirare la pedagogia salesiana.  
 
2. La chiamata all’impossibile  
 
Mentre per i ragazzi il sogno finisce con la festa, per Giovanni termina con lo sgomento e addirittura con il pianto. Si tratta di un esito che non può che stupire.  
 
Si è soliti pensare, infatti, con qualche semplificazione, che le visite di Dio siano portatrici esclusivamente di gioia e di consolazione.  
 
È paradossale dunque che per un apostolo della gioia, per colui che da seminarista fonderà la “società dell’allegria” e che da prete insegnerà ai suoi ragazzi che la santità consiste nello “stare molto allegri”, la scena vocazionale termini con il pianto.  
 
Ciò può certamente indicare che l’allegria di cui si parla non è puro svago e semplice spensieratezza ma risonanza interiore alla bellezza della grazia. Come tale, essa potrà essere raggiunta solo attraverso impegnative battaglie spirituali, di cui don Bosco dovrà in larga misura pagare il prezzo a beneficio dei suoi ragazzi.  
 
Egli rivivrà così su di sé quello scambio di ruoli che affonda le sue radici nel mistero pasquale di Gesù e che si prolunga nella condizione degli apostoli: «noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati» (1Cor 4,10), ma proprio così «collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24).  
 
Il turbamento con cui il sogno si chiude, tuttavia, richiama soprattutto la vertigine che i grandi personaggi biblici provano di fronte alla vocazione divina che si manifesta nella loro vita, orientandola in una direzione del tutto imprevedibile e sconcertante.  
 
Il Vangelo di Luca afferma che perfino Maria Santissima, alle parole dell’angelo, provò un senso di profondo turbamento interiore («a queste parole ella fu molto turbata» Lc 1,29). Isaia si era sentito perduto di fronte alla manifestazione della santità di Dio nel tempio (Is 6), Amos aveva paragonato al ruggito di un leone (Am 3,8) la forza della Parola divina da cui era stato afferrato, mentre Paolo sperimenterà sulla via di Damasco il capovolgimento esistenziale che deriva dall’incontro con il Risorto.  
 
Pur testimoniando il fascino di un incontro con Dio che seduce per sempre, nel momento della chiamata gli uomini biblici sembrano più esitare impauriti di fronte a qualcosa che li eccede, che lanciarsi a capofitto nell’avventura della missione.  
 
Il turbamento che Giovanni sperimenta nel sogno sembra un’esperienza analoga. Esso nasce dal carattere paradossale della missione che gli viene assegnata e che egli non esita a definire “impossibile” («Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»).  
 
L’aggettivo potrebbe sembrare “esagerato”, come a volte sono le reazioni dei bambini, soprattutto quando esprimono un senso d’inadeguatezza di fronte a un compito impegnativo.  
 
Ma questo elemento di psicologia infantile non sembra sufficiente a illuminare il contenuto del dialogo onirico e la profondità dell’esperienza spirituale che esso comunica.  
 
Tanto più che Giovanni ha una vera stoffa da leader e un’ottima memoria, che gli consentiranno nei mesi successivi al sogno di iniziare subito a fare un po’ di oratorio, intrattenendo i suoi amici con giochi da saltimbanco e ripetendo loro per filo e per segno la predica del parroco.  
 
Per questo nelle parole con cui dichiara schiettamente di essere «incapace di parlare di religione» ai suoi compagni, sarà bene sentir risuonare l’eco lontana dell’obiezione di Geremia alla vocazione divina: «non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6).  
 
Non è sul piano delle attitudini naturali che si gioca qui la richiesta dell’impossibile, bensì sul piano di ciò che può rientrare nell’orizzonte del reale, di ciò che ci si può attendere in base alla propria immagine del mondo, di ciò che rientra nel limite dell’esperienza.  
 
Oltre questa frontiera, si apre appunto la regione dell’impossibile, che è però, biblicamente, lo spazio dell’agire di Dio. “Impossibile” è per Abramo avere un figlio da una donna sterile e anziana come Sara; “impossibile” è per la Vergine concepire e dare al mondo il Figlio di Dio fatto uomo; “impossibile” pare ai discepoli la salvezza, se è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli.  
 
Eppure Abramo si sente rispondere: «C’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?» (Gen 18,14); l’angelo dice a Maria che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37); e Gesù risponde agli discepoli increduli che «ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27).  
 
Il luogo supremo in cui si pone la questione teologica dell’impossibile è, però, il momento decisivo della storia della salvezza, ossia il dramma pasquale, in cui la frontiera dell’impossibile da superare è lo stesso abisso tenebroso del male e della morte.  
 
È in questo spazio generato dalla risurrezione che l’impossibile diventa effettiva realtà, è in esso che l’uomo venerando del sogno, splendente di luce pasquale, chiede a Giovanni di rendere possibile l’impossibile.  
 
E lo fa con una formula sorprendente: «Perché tali cose ti sembrano impossibili devi renderle possibili coll’ubbidienza». Sembrano le parole con cui i genitori esortano i bambini, quando sono riluttanti, a fare qualcosa di cui non si sentono capaci o che non hanno voglia di fare.  
 
«Obbedisci e vedrai che ci riesci» dicono allora mamma o papà: la psicologia del mondo infantile è perfettamente rispettata. Ma sono anche, e assai più, le parole con cui il Figlio rivela il segreto dell’impossibile, un segreto che è tutto nascosto nella sua obbedienza.  
 
L’uomo venerando che comanda una cosa impossibile, sa attraverso la sua umana esperienza che l’impossibilità è il luogo in cui il Padre opera con il suo Spirito, a condizione che gli si apra la porta con la propria obbedienza.  
 
Giovanni ovviamente rimane turbato e sbalordito, ma è l’atteggiamento che l’uomo sperimenta di fronte all’impossibile pasquale, di fronte cioè al miracolo dei miracoli, di cui ogni altro evento salvifico è segno.  
 
Non deve dunque stupire che nel sogno la dialettica del possibile-impossibile s’intrecci con l’altra dialettica, quella della chiarezza e della oscurità.  
 
Essa caratterizza anzitutto la stessa immagine del Signore, la cui faccia è talmente luminosa che Giovanni non riesce a guardarla. Su quel volto splende, infatti, una luce divina che paradossalmente produce oscurità.  
 
Vi sono poi le parole dell’uomo e della donna che, mentre spiegano in modo limpido ciò che Giovanni deve fare, lo lasciano però confuso e spaventato.  
 
Vi è infine un’illustrazione simbolica, attraverso la metamorfosi degli animali, che però conduce a un’incomprensione ancora maggiore.  
 
Giovanni non può che chiedere ulteriori chiarimenti: «pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare», ma la risposta che ottiene dalla donna di maestoso aspetto rinvia in avanti il momento della comprensione: «A suo tempo tutto comprenderai».  
 
Ciò significa certamente che solo attraverso l’esecuzione di ciò che del sogno è già afferrabile, ossia attraverso l’obbedienza possibile, si dischiuderà in modo più ampio lo spazio per chiarirne il messaggio.  
 
Esso non consiste, infatti, semplicemente in un’idea da spiegare, ma in una parola performativa, una locuzione efficace, che proprio realizzando la propria potenza operativa manifesta il suo senso più profondo.  
 
3. Il mistero del Nome  
 
Giunti a questo punto della riflessione, siamo in grado di interpretare meglio un altro elemento importante dell’esperienza onirica.  
 
Si tratta del fatto che al centro della duplice tensione tra possibile e impossibile e tra conosciuto e sconosciuto, e anche, materialmente, al centro della narrazione del sogno, vi sia il tema del Nome misterioso dell’uomo venerando.  
 
Il fitto dialogo della sezione III è, infatti, intessuto di domande che ribattono lo stesso tema: «Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»; «Chi siete voi che parlate in questo modo?», e infine: «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome».  
 
L’uomo venerando dice a Giovanni di chiedere il Nome a sua madre, ma in realtà quest’ultima non glielo dirà. Esso resta fino alla fine avvolto nel mistero.  
 
Abbiamo già accennato, nella parte dedicata a ricostruire lo sfondo biblico del sogno, che il tema del Nome è strettamente correlato all’episodio della vocazione di Mosè al roveto ardente (Es 3).  
 
Questa pagina costituisce uno dei testi centrali della rivelazione veterotestamentaria e pone le basi di tutto il pensiero religioso di Israele.  
 
André LaCoque ha proposto di definirla “rivelazione delle rivelazioni”, perché costituisce il principio di unità della struttura narrativa e prescrittiva che qualifica la narrazione dell’Esodo, cellula-madre dell’intera Scrittura.[i]  
 
È importante notare come il testo biblico articoli in stretta unità la condizione di schiavitù del popolo in Egitto, la vocazione di Mosè e la rivelazione teofanica.  
 
La rivelazione del Nome di Dio a Mosè non avviene come la trasmissione di un’informazione da conoscere o di un dato da acquisire, ma come la manifestazione di una presenza personale, che intende suscitare una relazione stabile e generare un processo di liberazione. In questo senso la rivelazione del Nome divino è orientata in direzione dell’alleanza e della missione.  
 
«Il Nome è insieme teofanico e performativo, poiché quelli che lo ricevono non sono semplicemente introdotti nel segreto divino, ma sono i destinatari di un atto di salvezza».[ii]  
 
Il Nome, infatti, a differenza del concetto, non designa meramente un’essenza da pensare, ma un’alterità cui riferirsi, una presenza da invocare, un soggetto che si propone come vero interlocutore dell’esistenza.  
 
Pur implicando l’annuncio di un’incomparabile ricchezza ontologica, quella stessa dell’Essere che non può mai essere adeguatamente definito, il fatto che Dio si riveli come un “Io” indica che solo attraverso la relazione personale con Lui sarà possibile accedere alla sua identità, al Mistero dell’Essere che Egli è.  
 
La rivelazione del Nome personale è dunque un atto di parola che interpella il destinatario, chiedendogli di situarsi nei confronti del parlante. Solo così, infatti, è possibile coglierne il senso.  
 
Tale rivelazione, inoltre, si pone esplicitamente come fondamento per la missione liberatrice che Mosè deve realizzare: «Io-sono mi ha mandato a voi» (Es 3,14).  
 
Presentandosi come un Dio personale, e non un Dio legato a un territorio, e come il Dio della promessa, e non puramente come il signore dell’immutabile ripetizione, Jahwè potrà sostenere il cammino del popolo, il suo viaggio verso la libertà. Egli ha dunque un Nome che si fa conoscere in quanto suscita alleanza e muove la storia.  
 
«Ditemi il vostro nome»: questa domanda di Giovanni non può ricevere risposta semplicemente attraverso una formula, un nome inteso come etichetta esteriore della persona.  
 
Per conoscere il Nome di Colui che parla nel sogno non basta ricevere un’informazione, ma è necessario prendere posizione di fronte al suo atto di parola. È necessario cioè entrare in quel rapporto di intimità e di consegna, che i Vangeli descrivono come un “rimanere” presso di Lui.  
 
Per questo quando i primi discepoli interrogano Gesù sulla sua identità – «Maestro, dove abiti?» o alla lettera «dove rimani?» – egli risponde «Venite e vedrete» (Gv 1,38s.).  
 
Solo “rimanendo” con lui, abitando nel suo mistero, entrando nella sua relazione con il Padre, si può conoscere realmente Chi egli sia.  
 
Il fatto che il personaggio del sogno non risponda a Giovanni con un appellativo, come noi faremmo presentando ciò che c’è scritto sulla nostra carta di identità, indica che il suo Nome non può essere conosciuto come una pura designazione esterna, ma mostra la sua verità solo quando sigilla un’esperienza di alleanza e di missione.  
 
Giovanni dunque conoscerà quel Nome proprio attraversando la dialettica del possibile e dell’impossibile, della chiarezza e dell’oscurità; lo conoscerà realizzando la missione oratoriana che gli è stata affidata.  
 
Lo conoscerà, dunque, portandolo dentro di sé, grazie a una vicenda vissuta come storia abitata da Lui. Un giorno Cagliero testimonierà di don Bosco che il suo modo di amare era  
 
«tenerissimo, grande, forte, ma tutto spirituale, puro, veramente casto», tanto che «dava un’idea perfetta dell’amore che il Salvatore portava ai fanciulli» (Cagliero 1146r).  
 
Questo indica che il Nome dell’uomo venerando, il cui volto era tanto luminoso da accecare la vista del sognatore, è realmente entrato come un sigillo nella vita di don Bosco.  
 
Egli ne ha avuta la experientia cordis attraverso il cammino della fede e della sequela. È questa l’unica forma in cui la domanda del sogno poteva trovare risposta.  
 
4. La mediazione materna  
 
Nell’incertezza circa Colui che lo invia, l’unico punto fermo cui Giovanni può appigliarsi nel sogno è il rimando a una madre, anzi a due: quella dell’uomo venerando e la propria.  
 
Le risposte alle sue domande, infatti, suonano così: «Io sono il figlio di colei che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno» e poi «il mio nome dimandalo a Mia Madre».  
 
Che lo spazio del chiarimento possibile sia mariano e materno è indubbiamente un elemento su cui merita riflettere. Maria è il luogo in cui l’umanità realizza la più alta corrispondenza alla luce che viene da Dio e lo spazio creaturale in cui Dio ha consegnato al mondo la sua Parola fatta carne.  
 
È altresì indicativo che al risveglio dal sogno, colei che ne intuisce al meglio il senso e la portata sia la mamma di Giovanni, Margherita.  
 
Su livelli diversi, ma secondo una reale analogia, la Madre del Signore e la madre di Giovanni rappresentano il volto femminile della Chiesa, che si mostra capace di intuizione spirituale e costituisce il grembo in cui le grandi missioni vengono gestate e partorite.  
 
Non c’è dunque da stupirsi che le due madri siano accostate tra loro e proprio nel punto in cui si tratta di andare al fondo della questione che il sogno presenta, ossia la conoscenza di Colui che affida a Giovanni la missione di una vita.  
 
Come già per il cortile vicino a casa, così anche per la madre, nell’intuizione onirica gli spazi dell’esperienza più familiare e quotidiana si dischiudono e mostrano nelle loro pieghe un’insondabile profondità.  
 
I gesti comuni della preghiera, il saluto angelico che era usuale tre volte al giorno in ogni famiglia, improvvisamente appaiono per ciò che sono: dialogo con il Mistero.  
 
Giovanni scopre così che alla scuola di sua madre ha già instaurato un legame con la Donna maestosa, che può spiegargli tutto. Vi è già dunque una sorta di canale femminile che consente di superare l’apparente distanza che c’è tra «un povero ed ignorante fanciullo» e l’uomo «nobilmente vestito».  
 
Tale mediazione femminile, mariana e materna, accompagnerà Giovanni per tutta la vita e farà maturare in lui una particolare disposizione a venerare la Vergine con il titolo di Aiuto dei cristiani, divenendone l’apostolo per i suoi ragazzi e per la Chiesa intera.  
 
Il primo aiuto che la Madonna gli offre è quello di cui un bambino ha naturalmente bisogno: quello di una maestra. Ciò che essa devi insegnargli è una disciplina che rende veramente sapienti, senza cui «ogni sapienza diviene stoltezza».  
 
Si tratta della disciplina della fede, che consiste nel dare credito a Dio e nell’obbedire anche di fronte all’impossibile e all’oscuro.  
 
Maria la trasmette come l’espressione più alta della libertà e come la sorgente più ricca della fecondità spirituale e educativa. Portare in sé l’impossibile di Dio e camminare nell’oscurità della fede è, infatti, l’arte in cui la Vergine eccelle al di sopra di ogni creatura.  
 
Essa ne ha fatto un arduo tirocinio nella sua peregrinatio fidei, segnata non di rado dal buio e dall’incomprensione. Basti pensare all’episodio del ritrovamento di Gesù dodicenne nel Tempio (Lc 2,41- 50).  
 
Alla domanda della madre: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», Gesù risponde in modo sorprendente: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». E l’evangelista annota: «Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro».  
 
Meno ancora probabilmente Maria capì quando la sua maternità, annunciata solennemente dall’alto, le fu per così dire espropriata perché divenisse comune eredità della comunità dei discepoli: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50).  
 
Ai piedi della croce poi, quando si fece buio su tutta la terra, l’Eccomi pronunciato nel momento della chiamata prese i contorni della rinuncia estrema, la separazione dal Figlio al cui posto doveva ricevere dei figli peccatori per i quali lasciarsi trapassare il cuore dalla spada.  
 
Quando dunque la donna maestosa del sogno inizia a svolgere il suo compito di maestra e, ponendo una mano sul capo di Giovanni, gli dice «A suo tempo tutto comprenderai», essa trae queste parole dalle viscere spirituali della fede che ai piedi della croce l’ha resa madre di ogni discepolo.  
 
Sotto la sua disciplina Giovanni dovrà restare per tutta la vita: da giovane, da seminarista, da sacerdote. In modo particolare dovrà rimanervi quando la sua missione prenderà contorni che al momento del sogno non poteva immaginare; quando, cioè, egli dovrà divenire nel cuore della Chiesa fondatore di famiglie religiose destinate alla gioventù di ogni continente.  
 
Allora Giovanni, divenuto ormai don Bosco, capirà anche il senso più profondo del gesto con cui l’uomo venerando gli ha dato sua madre come “maestra”.  
 
Quando un giovane entra in una famiglia religiosa, trova ad accoglierlo un maestro di noviziato, cui viene affidato perché lo introduca nello spirito dell’Ordine e lo aiuti ad assimilarlo.  
 
Quando si tratta di un Fondatore, che deve ricevere dallo Spirito Santo la luce originaria del carisma, il Signore dispone che sia la sua stessa madre, Vergine della Pentecoste e modello immacolato della Chiesa, a fargli da Maestra.  
 
Lei sola, la “piena di grazia”, comprende infatti dal di dentro tutti i carismi, come una persona che conosca tutte le lingue e le parli come fossero la propria.  
 
In effetti la donna del sogno sa indicargli in modo preciso e appropriato le ricchezze del carisma oratoriano. Essa non aggiunge nulla alle parole del Figlio, ma le illustra con la scena degli animali selvaggi divenuti agnelli mansueti e con l’indicazione delle qualità che Giovanni dovrà maturare per svolgere la sua missione: «umile, forte, robusto».  
 
In questi tre aggettivi, che designano il vigore dello spirito (l’umiltà), del carattere (la forza) e del corpo (la robustezza), c’è una grande concretezza.  
 
Sono i consigli che darebbe a un giovane novizio chi ha una lunga esperienza di oratorio e sa ciò che richiede il “campo” in cui si deve “lavorare”.  
 
La tradizione spirituale salesiana ha custodito con cura le parole di questo sogno che si riferiscono a Maria. Le Costituzioni salesiane vi alludono in modo evidente quando affermano: «La Vergine Maria ha indicato a Don Bosco il suo campo di azione tra i giovani»,[iii] o ricordano che «guidato da Maria che gli fu Maestra, don Bosco visse nell’incontro con i giovani del primo oratorio un’esperienza spirituale ed educativa che chiamò Sistema Preventivo».[iv]  
 
Don Bosco riconobbe a Maria un ruolo determinante nel suo sistema educativo, vedendo nella sua maternità l’ispirazione più alta di ciò che significa “prevenire”. Il fatto che Maria sia intervenuta fin dal primo momento della sua vocazione carismatica, che essa abbia avuto un ruolo così centrale in questo sogno, farà per sempre comprendere a don Bosco che essa appartiene alle radici del carisma e che ove non le sia riconosciuto questo ruolo ispiratore, il carisma non è inteso nella sua genuinità.  
 
Data per Maestra a Giovanni in questo sogno, essa dovrà esserlo anche per tutti coloro che ne condividono la vocazione e la missione. Come i successori di don Bosco non si sono mai stancati di affermare, la «vocazione salesiana è inspiegabile, tanto nella sua nascita come nel suo sviluppo e sempre, senza il concorso materno e ininterrotto di Maria».[v]  
 
5. La forza della mansuetudine  
 
«Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici»: queste parole sono senza dubbio l’espressione più nota del sogno dei nove anni, quella che in qualche modo ne sintetizza il messaggio e ne trasmette l’ispirazione.  
 
Sono anche le prime parole che l’uomo venerando dice a Giovanni, interrompendo il suo sforzo violento di mettere fine al disordine e alle bestemmie dei suoi compagni.  
 
Non si tratta solo di una formula che trasmette una sentenza sapienziale sempre valida, ma di un’espressione che precisa le modalità esecutive di un ordine («mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole») con cui, come si è detto, viene riorientato il movimento intenzionale della coscienza del sognatore.  
 
La foga delle percosse deve divenire lo slancio della carità, l’energia scomposta di un intervento repressivo deve lasciar spazio alla mansuetudine.  
 
Il termine “mansuetudine” viene ad avere qui un peso rilevante, che colpisce ancora di più se si pensa che l’aggettivo corrispondente sarà usato alla fine del sogno per descrivere gli agnelli che fan festa intorno al Signore e a Maria.  
 
L’accostamento suggerisce un’osservazione che non pare priva di pertinenza: perché possano divenire “mansueti” agnelli coloro che erano animali feroci, bisogna che divenga mansueto anzitutto il loro educatore.  
 
Entrambi, seppur a partire da punti diversi, devono compiere una metamorfosi per entrare nell’orbita cristologica della mitezza e della carità.  
 
Per un gruppo di ragazzi scalmanati e rissosi è facile capire che cosa esiga questo cambiamento. Per un educatore forse è meno evidente. Egli, infatti, si pone già sul versante del bene, dei valori positivi, dell’ordine e della disciplina: quale cambiamento gli può essere chiesto?  
 
Si pone qui un tema che nella vita di don Bosco avrà uno sviluppo decisivo, anzitutto sul piano dello stile dell’azione e, in certa misura, anche su quello di una riflessione teorica.  
 
Si tratta dell’orientamento che conduce don Bosco a escludere categoricamente un sistema educativo basato sulla repressione e sui castighi, per scegliere con convinzione un metodo che è tutto basato sulla carità e che don Bosco chiamerà “sistema preventivo”.  
 
Di là delle diverse implicanze pedagogiche che derivano da questa scelta, per le quali rimandiamo alla ricca bibliografia specifica, interessa qui evidenziare la dimensione teologico-spirituale che è sottesa a questo indirizzo, di cui le parole del sogno costituiscono in qualche modo l’intuizione e l’innesco.  
 
Ponendosi dalla parte del bene e della “legge”, l’educatore può essere tentato di impostare la sua azione con i ragazzi secondo una logica che mira a far regnare l’ordine e la disciplina essenzialmente attraverso regole e norme.  
 
Eppure anche la legge porta dentro di sé un’ambiguità che la rende insufficiente a guidare la libertà, non solo per i limiti che ogni regola umana porta dentro di sé, ma per un limite che ultimamente è di ordine teologale.  
 
Tutta la riflessione paolina è una grande meditazione su questo tema, poiché Paolo aveva percepito nella sua esperienza personale che la legge non gli aveva impedito di essere «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1Tim 1,13).  
 
La stessa Legge data da Dio, insegna la Scrittura, non basta a salvare l’uomo, se non vi è un altro Principio personale che la integri e la interiorizzi nel cuore dell’uomo.  
 
Paul Beauchamp riassume felicemente questa dinamica quando afferma: «La Legge è preceduta da un Sei amato e seguita da un Amerai. Sei amato: fondazione della legge, e Amerai: il suo superamento».[vi]  
 
Senza questa fondazione e questo superamento, la legge porta in sé i segni di una violenza che rivela la sua insufficienza a generare quel bene che essa, pure, ingiunge di compiere.  
 
Per tornare alla scena del sogno, i pugni e le percosse che Giovanni dà in nome di un sacrosanto comandamento di Dio, che proibisce la bestemmia, rivelano l’insufficienza e l’ambiguità di ogni slancio moralizzatore che non sia interiormente riformato dall’alto.  
 
Occorre dunque anche per Giovanni, e per coloro che apprenderanno da lui la spiritualità preventiva, la conversione a una logica educativa inedita, che va oltre il regime della legge.  
 
Tale logica è resa possibile solo dallo Spirito del Risorto, effuso nei nostri cuori. Solo lo Spirito, infatti, consente di passare da una giustizia formale ed esteriore (sia essa quella classica della “disciplina” e della “buona condotta” o quella moderna delle “procedure” e degli “obiettivi raggiunti”) a una vera santità interiore, che compie il bene perché ne è interiormente attratta e guadagnata.  
 
Don Bosco mostrerà di avere questa consapevolezza quando nel suo scritto sul Sistema preventivo dichiarerà francamente che esso è tutto basato sulle parole di san Paolo: «Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet».  
 
Naturalmente “guadagnare” i giovani in questo modo è un compito assai esigente. Implica di non cedere alla freddezza di un’educazione fondata solo sulle regole, né al buonismo di una proposta che rinuncia a denunciare la “bruttezza del peccato” e a presentare la “preziosità della virtù”.  
 
Conquistare al bene mostrando semplicemente la forza della verità e dell’amore, testimoniata attraverso la dedizione “fino all’ultimo respiro”, è la figura di un metodo educativo che è al contempo una vera e propria spiritualità.  
 
Non c’è da stupirsi che Giovanni nel sogno faccia resistenza a entrare in questo movimento e chieda di comprendere bene chi è Colui che lo imprime.  
 
Quando però avrà capito, facendo diventare quel messaggio dapprima un’istituzione oratoriana e poi anche una famiglia religiosa, penserà che raccontare il sogno in cui ha appreso quella lezione sarà il modo più bello per condividere con i suoi figli il significato più autentico della sua esperienza.  
 
È Dio che ha guidato ogni cosa, è Lui stesso che ha impresso il movimento iniziale di quello che sarebbe divenuto il carisma salesiano.  
OK don Andrea Bozzolo, sdb, Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana  

Note

 
[i] A. LACOCQUE, La révélation des révélations: Exode 3,14, in P. RICOEUR – A. LACOCQUE, Penser la Bible, Seuil, Paris 1998, 305.  
[ii] A. BERTULETTI, Dio, il mistero dell’unico, Queriniana, Brescia 2014, 354.  
[iii] Cost art. 8.  
[iv] Cost art. 20.  
[v] E. VIGANÒ, Maria rinnova la Famiglia Salesiana di don Bosco, ACG 289 (1978) 1-35, 28.  
[vi] P. BEAUCHAMP, La legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000, 116.  
 
 
Fonte  
 
2024-01-15
Autore : don Andrea Bozzolo
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