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Lo Stato
Testo della lezione alla Scuola di Dottrina politica cattolica  
 
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Lo Stato

 
Il termine Stato non va confuso con l’espressione comunità politica. Questa indica la convivenza naturale degli uomini, mentre lo Stato indica l’apparato di cui essi si servono.  
 
La prima ha le proprie regole naturali, il secondo ha una organizzazione che può mutare nel tempo allo scopo di renderlo sempre più adatto a rispecchiare le regole naturali davanti ai nuovi problemi.  
 
Nell’antichità greca e romana non esisteva il concetto attuale di Stato come qualcosa di distinto o addirittura di fondante la comunità, anche se i passi di Platone e Aristotele vengono oggi tradotti adoperando questo termine.  
 
Le espressioni concettuali adatte erano koinonia politiké o res publica. La polis greca era una comunità politica governata dalle leggi del cosmo e degli déi e la sua organizzazione politica era intesa come intrinseca a questa comunità, non come un apparato esterno o superiore.  
 
Platone dice che gli uomini desiderano vivere insieme per rispondere così ai propri bisogni, e Aristotele va oltre dicendo che gli uomini, anche se non traessero nessun vantaggio, ugualmente desidererebbero stare insieme.  
 
Nella societas christiana lo Stato, come lo intendiamo noi oggi, non esisteva. C’era l’impero e dentro l’impero c’erano le nationes, i monasteri e i conventi, i feudi e i comuni, le diocesi e le università, le corporazioni e i quartieri, le città e le ville.  
 
Non esisteva un apparato centralizzato e burocratico, ma il governo veniva esercitato a diversi livelli di autonomia e responsabilità, in modo variegato, articolato e organico.  
 
Nella cristianità nessun comune era uguale ad un altro. L’universalismo della religione, della lingua e della cultura, compresa la cultura dotta, garantiva l’unità della molteplicità.  
 
I due poteri, spirituale del papa e temporale dell’imperatore, erano autonomi e sovrani nei due ordini, ma alla fine si dava una supremazia della religione sulla politica.  
 
Dante pensava che i due ordini fossero allo stesso livello, ritenendo che l’uomo avesse due fini da raggiungere, autonomi in quanto dotati dei propri mezzi, ma San Tommaso pensava che l’uomo avesse non due fini ma un duplice fine e che il potere temporale, pur dotato di una propria legittima autonomia, dipendesse da quello spirituale come la natura dipende dalla grazia.  
 
La crisi della cristianità fu lunga, durò fino alla Rivoluzione francese. In questo lungo periodo già nel XIV secolo si fecero notare i primi sintomi di una decomposizione di questo quadro.  
 
Marsilio da Padova, nel suo Defensor pacis, sostiene che lo Stato deve condurre una “reductio ad unum” di tutte le realtà sociali in esso esistenti, prefigurando ante litteram lo Stato moderno accentrato. Lo stesso Marsilio e gli altri esponenti dell’aristotelismo eterodosso ed averroista, come Giovanni di Jandun, spinsero l’imperatore a dissociarsi dal papa, iniziando la moderna secolarizzazione del potere politico e la trasformazione dello stesso Impero in uno Stato.  
 
La filosofia di Guglielmo di Occam non permetteva più un corretto rapporto tra ragione e fede e quindi nemmeno tra politica e religione che venivano disgiunte. Machiavelli staccò l’operato del Principe non solo dalla religione ma anche dalla morale.  
 
I presupposti fondamentali di una nuova visione moderna di Stato arrivarono però solo con Lutero. Per la Riforma la natura umana è irrimediabilmente corrotta dal peccato, la ragione umana non è in grado di conoscere alcuna legge naturale su cui fondare la vita politica in armonia con la rivelazione e la rivelazione non ha nessuna pretesa di esprimere delle esigenze relative alla giusta vita politica, il potere politico è solo lo strumento necessario per tenere a bada gli uomini corrotti e reprobi per natura, esso serve solo a governare l’asino bastonandolo. Lutero mise nelle mani dei Principi tedeschi la Riforma non perché ritenesse che la politica avesse bisogno della religione, ma perché la società aveva bisogno del potere.  
 
Il potere non trova in sé le ragioni per scegliere la religione, perché tra le due dimensioni non c’è continuità ma frattura: il potere sarà sempre malvagio. Nasce allora lo Stato come indipendente dalla religione e che sceglie per motivi politici la religione riformata o la religione cattolica.  
 
Nasce il principio della libertà di religione, ma non per le persone, bensì per gli Stati, che si configurano quindi come degli Individui (Persona civitatis) e agenti secolarizzati.  
 
La Chiesa e la religione sono subordinate allo Stato. I decreti della Dieta di Augusta del 1555 – cuius regio eius religio – sanciscono la nascita dello Stato moderno e la pace di Westfalia del 1648 consacrerà nel Vecchio continente la nuova situazione geopolitica.  
 
La Riforma produce la fine della cristianità non solo dal punto di vista religioso ma anche da quello politico.  
 
Ma è solo nel XVII secolo, con Hobbes, Locke e Rousseau che la rottura apportata dalla filosofia moderna e dalla Riforma luterana produce i suoi effetti più sistematici e di sostanza.  
 
Lo Stato qui diventa il fondamento e la giustificazione della comunità politica, con l’inversione del rapporto naturale tra i due. Non c’è comunità politica finché non c’è un potere politico, quello dello Stato; non c’è legge e non c’è cittadinanza senza lo Stato che fa le leggi sostenendole con la spada e attribuisce lo status di cittadino.  
 
Tra uomo e cittadino ora è il secondo elemento a prevalere. Il cambiamento di prospettiva avviene con l’assunzione del costruttivismo politico, figlio della filosofia moderna.  
 
Per costruttivismo politico si intende l’idea che una comunità politica naturale non sia mai esistita e che nello stato di natura gli uomini fossero degli individui privi di relazioni, senza regole, abbandonati alla sola legge del più forte e avente tanto di diritto quanto di potenza (Spinoza).  
 
La comunità politica quindi è stata costruita, non esisteva per natura, essa nata come frutto di un atto collettivo di volontà, il pactum societatis e il pactum subiectionis.  
 
Con il primo ci si unisce, con il secondo ci si sottomette al potere. Non si tratta però di due momenti successivi l’uno all’altro, ma dello stesso momento: non c’è unione senza sottomissione, sicché il potere diventa il fondamento della società, il suo perché.  
 
La società è un costrutto umano, deriva da un atto di volontà, ma siccome la volontà in quanto volontà non ha ragioni, la costruzione della società è privo di ragioni e il potere rimane infondato e non legittimato, per questo esso si legittima solo con la forza. Il potere è allora privo di autorità, perché l’autorità è il potere moralmente legittimato.  
 
Lo Stato come costrutto volontaristico pattizio e contrattualistico è quindi assoluto fin dal suo nascere.  
 
Non ha alle spalle nessuna finalità naturale e indisponibile, si fonda sulla propria forza, non accetta nessuna autonomia di corpi intermedi al proprio interno secondo il principio della reductio ad unum di Marsilio, chiede ai cittadini una sudditanza assoluta, l’obbedienza ad una Volontà generale totale e indiscutibile, la condanna di ogni forma di opposizione e sedizione, e se lo Stato dice che egli deve morire, il cittadino deve morire.  
 
La cosa è vera sia nelle varie forme di potere assoluto personale, di potere assoluto di una curia, di potere assoluto del popolo, come avviene nella democrazia. In ogni caso il potere è sovrano e non riconosce nulla al di sopra di sé.  
 
Può sembrare una eccezione il caso di Locke, presentato come il principale teorico del liberalismo, dato che ammetteva che l’individuo manteneva anche in società dei diritti naturali.  
 
Essi però venivano intesi come la proprietà di se stesso e della propria vita, quindi come libertà assoluta, il che trasformava lo Stato come l’ente moralmente neutro che solo permetteva tutte le scelte individualistiche, rimanendo dapprima neutro ma poi intervenendo per promuovere obbligatoriamente queste libertà. Su questo punto ricorderò più avanti la posizione di Schmitt.  
 
Questa concezione di Stato aveva ed ha carattere rivoluzionario. Esso nasce infatti da tre rivoluzioni: le rivoluzioni inglesi, quella francese e quella americana. Rivoluzionario perché dissolveva ogni dimensione naturale e religiosa e poneva nel potere politico il fondamento convenzionale di ogni valore o principio.  
 
Nel corso dell’Ottocento, a cominciare dallo Stato prefigurato nel Codice Napoleonico, gli Stati portarono avanti questa loro rivoluzione realizzata dall’alto: minarono la famiglia introducendo il matrimonio civile e il divorzio, concentrarono nelle loro mani l’istruzione e l’educazione, assunsero i pieni poteri nel campo della solidarietà sociale, eliminarono i corpi intermedi ereditati dal passato come le corporazioni medievali, limitarono violentemente i diritti della Chiesa e laicizzarono le istituzioni, crearono una “religione civile” materialista ed anticristiana con cui legare la popolazione. Questa rivoluzione ebbe il suo momento culminante con l’ingresso dei Bersaglieri italiani a Porta Pia nel 1870.  
 
Lo Stato moderno è rivoluzionario perché è uno Stato ideologico. Questo suo carattere deriva dal suo costruttivismo politico: se la politica non trovale proprie basi nel diritto naturale diventa forzatamente ideologica, ossia una sovrapposizione alla realtà di visioni e interessi di parte.  
 
Non trovando limiti nel diritto naturale, questa visione ideologica diventa anche rivoluzionaria in quanto si sente in dovere di imporre con una propria verità. Poiché questa verità è innaturale bisogna usare le forza per imporla, dato che non ci sono ragionamenti da poter adoperare.  
 
Da qui il carattere violentemente ideologico, ben visibile per esempio nella Rivoluzione Francese, come del resto aveva anticipato Rousseau, secondo il quale la democrazia della Volontà generale avrebbe dovuto prima cambiare la natura umana.  
 
Tale carattere violento è proprio anche degli Stati democratici e viene esercitato tramite la scuola di Stato, il controllo diretto o indiretto della stampa, l’applicazione di una “pedagogia delle masse”.  
 
Una conseguenza importante dello Stato ideologico è che esso finisce per distruggere il “popolo”, per essere demofobo, perché lo manipola facendogli credere di decidere con le proprie forze.  
 
Contro questo Stato la Chiesa combatté a lungo. L’opposizione continuò con i pontificati fino a Pio XI, che scelse di venire a patti con il nuovo stato italiano e firmare con esso il concordato del Laterano.  
 
Dopo l’elezione Pio XI si affacciò per la benedizione della folla in piazza san Pietro dalla loggia della basilica vaticana, atto che i suoi precessori non avevano più fatto per protesta contro l’occupazione dello Stato della Chiesa. Si capì da quel gesto che le cose sarebbero cambiate.  
 
Durante il fascismo, però, lo Stato moderno avverso alla Chiesa continuò. Il fascismo non fu un movimento di reazione, come molti storici, soprattutto di sinistra, lo dipinsero, ma un movimento di modernizzazione.  
 
Il suo centralismo statalista, l’identificazione tra nazione, partico e Stato, l’occupazione politica dei corpi intermedi comprese le resuscitate corporazioni, il monopolio scolastico ed educativo, la sua religione “pagana” sono tutti elementi non in contrasto ma in continuità con i principi dello Stato moderno che abbiamo visti sopra.  
 
Con il concordato la Chiesa otteneva dei vantaggi, anche se “concessi”, ma rinunciava ad alcune sue prerogative di principio. Basti pensare all’insegnamento della religione nella scuola pubblica.  
 
Quando nel 1919 nacque il Partito Popolare, superando definitivamente il non expedit, i cattolici elaborarono un programma – “ai liberi e forti” – che sottoponeva a critica la visione moderna dello Stato, pur se in modo non completo.  
 
Durante il Ventennio, accanto ai vecchi popolari, nasce una nuova classe dirigente cattolica che, invece, cominciò ad accettare questo tipo di Stato, soprattutto sulla scia delle opere politiche di Maritan e all’interno dell’Azione cattolica di cui era assistente mons. Montini.  
 
Questa nuova classe dirigente, che ancora nel “Codice di Camaldoli” del luglio 1943 esprimeva la visione cattolica classica dello Stato, si distingueva rispetto ai vecchi popolari e, una volta giunta al potere non applicò quei principi.  
 
Dopo la guerra, quando nel frattempo era nata la Democrazia cristiana, Sturzo tornò dal lungo esilio in Francia e in America e criticò aspramente l’adesione del partito cattolico allo Stato moderno accentratore, mentre invece Giorgio La Pira invitava a “non avere paura dello Stato”.  
 
Il ministero delle partecipazioni statali e l’IRI avrebbero dato purtroppo ragione a La Pira più che a Sturzo. Non c’è dubbio che i governi della Democrazia cristiana assunsero in proprio quella visione di Stato che in precedenza era stato sempre contestato.  
 
Possiamo dire che in questo modo i cattolici siano stati traghettati proprio in quella forma di Stato che, agli inizi della Dottrina sociale della Chiesa moderno, essi avevano condannato.  
 
Un momento importante di questo nuovo statalismo cattolico fu rappresentato dal pensiero di Giuseppe Dossetti e dal dossettismo politico, improntato, almeno inizialmente alla “nuova cristianità” di Maritain.  
 
L’adesione alla Costituzione e al nuovo Stato repubblicano fu da lui considerato un dovere assoluto e precedente alla fede cattolica, quale esempio di secolarizzazione ormai giunta a maturazione e momento di incontro con il comunismo italiano che, contemporaneamente, si sarebbe liberato del proprio ateismo.  
 
Vorrei tornare ora, in conclusione, ad alcune riflessioni del grande giurista tedesco Carl Schmitt. Lo Stato liberale e parlamentare, lo “Stato di diritto” che, secondo molti, deriva dalla filosofia di Locke e che rappresenterebbe un’eccezione al carattere totalitario dello Stato moderno, secondo Schmitt è ugualmente partecipe di questo carattere.  
 
Anche esso deriva dal Leviatano di Hobbes. Il punto è fondamentale per capire lo Stato parlamentare di oggi, anche italiano.  
 
Lo Stato moderno è neutrale rispetto a contenuti e a verità, dato che in esso la legalità coincide con la legittimità. Questo accade anche nello Stato di diritto democratico per cui la legge è la volontà contingente del popolo di volta in volta dato, per cui “la maggioranza non commetterà mai ingiustizia ma trasformerà ogni sua azione in diritto e legalità”.  
 
Questo segna il passaggio dalla neutralità all’intervento. Lo Stato di diritto parlamentare, dopo essersi dichiarato neutrale rispetto all’etica e alla religione, passerà a combattere positivamente l’etica e la religione perché comprometterebbero la sua neutralità. Per continuare a dirsi neutrale, lo Stato moderno deve cessare di esserlo.  
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Stefano Fontana  
Direttore dell'Osservatorio Card. Van Thuận  
 
Fonte  
 
2024-05-08
Autore : Stefano Fontana Fonte : Osservatorio Card. Van Thuận
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