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I miracoli nelle Scritture e la credibilità della religione cristiana
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I miracoli nelle Scritture

 
Decadi di scientismo e demitizzazione, materialismo e spiritualismo, razionalismo e fideismo hanno finito per ubriacare l'intelligenza umana, la quale ha così deposto le armi nella ricerca della verità, specie di quella che riguarda Dio e il fine ultimo dell'uomo.  
 
E non parliamo solo degli atei, ma anche dei cristiani, per la maggioranza dei quali – pastori compresi – la fede non avrebbe nulla a che vedere con l'intelligenza.  
 
Affermazione che riguarderebbe entrambe le direzioni della via che collega la conoscenza umana e la fede: nella corsia d'andata, la ragione dell'uomo non apporterebbe nulla di importante per il “salto della fede”, il quale si farebbe dunque alla cieca, raggiunti da una luce divina che, anziché illuminare la mente dell'uomo, la accecherebbe definitivamente; nella corsia di ritorno, neppure la fede avrebbe alcunché da dire alla ragione dell'uomo, in quanto la fede sarebbe più un sentimento che un atto dell'intelligenza, più un'adesione generica ad una Persona senza implicare verità da credere.  
 
Questo divorzio è cresciuto nel terreno fertile dello scientismo, che già nel XVII secolo aveva rotto gli argini ed inondato tutti i campi del sapere.  
 
Senza andare per il difficile, lo scientismo si è tradotto dapprima nell'illusione che la conoscenza scientifica sia l'unica incontrovertibile, e pertanto la sola a poter rivendicare una vocazione universalistica, capace di oltrepassare ogni credenza particolare (ritenuta perciò divisiva); poi nella conseguenza che ogni altra conoscenza, se veramente ha la pretesa di parlare a tutti gli uomini e accedere alla dimensione aletica, deve conformarsi il più possibile al metodo scientifico. In soldoni, nessuna verità al di fuori della conoscenza scientifica.  
 
La teologia non è stata immune dal contagio, che si è verificato in un primo momento principalmente nel mondo protestante, per poi invadere quello cattolico.  
 
Dal mondo più prettamente accademico (che nel frattempo, ha ridimensionato di molto tali pretese), l'ideologia scientista si è riversata sulla massa, comportando contraccolpi deleteri sulla fede comune, e non solo sulla teologia.  
 
Si può facilmente immaginare cos'abbia comportato questo approccio quanto ai contenuti della Rivelazione. Ci arriveremo.  
 
A noi, in questo articolo, interessa cercare di riavvicinarci alle fonti della Rivelazione, in particolare alle Sacre Scritture, con la mente e il cuore il più possibile sgombri da tutte queste sovrastrutture ideologiche.  
 
Focalizziamoci sui Vangeli, generalmente più familiari rispetto agli altri scritti del Nuovo e soprattutto dell'Antico Testamento.  
 
«Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20, 30-31).  
 
Il Signore Gesù è stato un “produttore industriale” di segni, secondo la terminologia utilizzata da San Giovanni. Ed in effetti, nei Vangeli troviamo circa quaranta narrazioni di miracoli compiuti da Gesù.  
 
Perché tanta abbondanza? La nostra mentalità razionalista rimprovererebbe d'istinto al Signore di aver voluto fondare la fede dei suoi discepoli e della folle sul sensazionale, sacrificandone così l'aspetto più “interiore”, qualunque cosa si voglia dire con questo aggettivo.  
 
Ed infatti, si avrà modo di vedere quanto l'imbarazzo di fronte ad un Gesù così poco “fine” abbia portato filosofi e teologi a cercare ogni interpretazione possibile di questi racconti, tranne la più semplice: Gesù Cristo ha compiuto questi segni straordinari e lo ha fatto, come ci dice il quarto Vangelo appena citato, «perché crediate». Dio ha scelto di compiere prodigi per spingere alla fede e corroborare la fede.  
 
Ancora nel quarto Vangelo, è la stessa bocca del Signore Gesù a mostrare la ragione per cui egli compie segni e prodigi: «Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre» (Gv 10, 37-38).  
 
Duplice affermazione: la mancanza di un'adesione di fede sarebbe giustificata se non fossero manifeste le «opere del Padre»; ma se queste opere ci sono, allora si deve credere che esse vengono dal Padre. Gesù insiste su questo punto, sottolineando la responsabilità dell'uomo di fronte a questi segni: «Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato» (Gv 15, 24).  
 
Il miracolo del cieco nato (cf. Gv 9) mette in luce la dinamica della fede, che parte dai segni di credibilità, e quella dell'ostinazione di fronte a un miracolo che è lì, davanti agli occhi di tutti, proprio per essere compreso come segno, ossia come evento che svela la presenza di Dio.  
 
La logica del cieco risanato, di fronte all'accecamento farisaico, non fa una grinza: «Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta.  
 
Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla» (Gv 9, 31-33).  
 
Il “dialogo” tra il cieco nato e i farisei si concluse nell'immediato con una cacciata del primo da parte dei secondi. Ma quel segno divenne uno spartiacque ben più profondo: colui che aveva riacquistato la luce degli occhi, per aver creduto grazie a questo segno a Colui che lo aveva compiuto, acquistò anche la luce dello spirito, per la vita eterna, mentre i farisei sprofondarono ancora di più nella tenebra, preludio della tenebre eterne.  
 
Gli esempi potrebbero continuare, ma il senso evidente resta sempre lo stesso: di fronte ai segni dati da Dio, l'uomo non può restare indifferente; è invece chiamato a discernere e credere alla presenza di Dio (ovviamente se questi segni sono di origine divina).  
 
Così come non è indifferente l'esito della sua attitudine: o si apre alla fede e si conferma in essa, oppure indurisce il cuore e acceca la mente.  
 
Nelle disposizioni divine, i segni vengono dati secondo una giusta misura, per noi incomprensibile, ma mai inutilmente; quando Dio si rivela è perché il suo intervento diventa fondamentale per la salvezza degli uomini: essenziale, riguardo ai miracoli di Gesù Cristo e a quelli degli Apostoli; importante e talvolta decisivo per quelli che si sono estesi nella storia, una volta conclusa la Rivelazione.  
 
Perché ogni segno donato è appunto un appello alla conversione, a ritornare a Dio, ad abbandonare la strada del male o della mediocrità.  
 
Tutto ciò che cosa significa se non che l'uomo è in grado, con l'aiuto di Dio stesso, di riconoscere l'opera di Dio, mediante questi segni? Dio non avrebbe operato prodigi, non avrebbe scelto di confermare l'opera di Cristo e degli Apostoli, se non fossero così importanti per aprire e sostenere l'atto di fede.  
 
Alle infinite e ossessive obiezioni che la fede è un dono e pertanto non nasce dai miracoli (il che è vero), risponde l'opera stessa di Cristo e degli Apostoli, che hanno operato miracoli proprio per dare un supporto ragionevole all'atto di fede: «perché crediate».  
 
Non si sta sostenendo che il miracolo produca la fede, che al miracolo segua necessariamente la fede: l'indurimento farisaico e l'incredulità di molti Giudei, ai tempi di Gesù, lo dimostra abbondantemente.  
 
Si sta invece affermando che questi segni soprannaturali sono stati e continuano ad essere un forte elemento di credibilità, una ragione robusta per credere. Sono una prova, non una dimostrazione. Ma a questo arriveremo a tempo debito.  
 
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La credibilità della religione cristiana

 
Il 9 novembre 1846, papa Pio IX emanava la prima enciclica del suo lungo pontificato, la Qui pluribus, con la quale si proponeva di rettificare alcune deviazioni alimentate dalle correnti fideiste e razionaliste.  
 
Nel mirino c'era anche l'insegnamento di Georg Hermes (1775-1831), professore di dogmatica all'Università di Bonn, la cui opera cercava di dare un fondamento al pensiero cattolico alla luce delle fondamentali tesi kantiane, e dunque di fondare un cristianesimo che potesse tener testa al pensiero critico.  
 
Non intendeva abbracciare l'apriorismo kantiano, ma di fatto, con il nobile scopo di mostrare che il cristianesimo resisteva alla critica kantiana, Hermes finì per rimanere imbrigliato nei principi stessi del criticismo.  
 
L'assenso di fede, secondo Hermes, dev'essere infatti vagliato dal dubbio, perché si possa giungere a mostrarne la razionalità; nella sua prospettiva, è possibile accedere ad una conoscenza certa solo nella misura in cui essa si dimostri alla ragione come assolutamente necessaria.  
 
Detto in altro modo, solo ciò che resiste in modo incontrovertibile al dubbio può essere ammesso come vero da parte della conoscenza e permettere così l'assenso della fede.  
 
Questa impostazione sedusse molti teologi cattolici, perché sembrava dimostrare l'assoluta razionalità dell'assenso di fede; ma il problema di fondo stava nel fatto che essa accettava di porsi allo stesso livello dell'impostazione critica kantiana, accettando la restrizione gnoseologica del filosofo tedesco.  
 
Torniamo a Pio IX. Egli aveva voluto intervenire sui motivi di credibilità del cristianesimo, ribadendo che quei segni, che comunemente chiamiamo miracoli, hanno valore di prova; non sono la fede, ma sono pur sempre vere prove che muovono verso la fede, la quale poi è un nuovo passaggio, frutto della sinergia tra dono divino e adesione dell'uomo.  
 
Cercando di semplificare molto, nella prospettiva cattolica affermiamo che alla ragione vengono dati sostegni sufficienti perché essa “comunichi” alla nostra volontà che ci si può fidare, si può compiere quel passo che supera la ragione stessa, e che è appunto il passo della fede.  
 
Nella Qui pluribus, Pio IX spiegava che «sono a disposizione molti ammirevoli e luminosi argomenti in base ai quali la ragione umana deve essere perfettamente convinta che la religione di Cristo è divina (…).  
 
Pertanto la ragione umana» proprio sulla base di questi argomenti, tra i quali eccellono i miracoli, è in grado di rimuovere «radicalmente tutti i dubbi e le difficoltà» che trattengono dall'abbracciare la fede cristiana (Denzinger 2778, 2780).  
 
L'affermazione di una ragione «perfettamente convinta» e della possibilità di rimozione radicale di ogni dubbio avevano fatto esultare i sostenitori della posizione di Hermes, ma fu il Papa stesso a spegnere gli entusiasmi, perché l'enciclica si muoveva in tutt'altra direzione rispetto a Hermes.  
 
Pio IX non stava infatti sostenendo che i motivi di credibilità a sostegno della fede siano il risultato necessario di un'equazione logica, ossequiando in tal modo l'impostazione teoretica kantiana, e dunque supportando una riduzione del vero al necessario (= ciò che non può essere altrimenti, per necessità logica), ma stava invece riscattando la più ampia conoscenza dell'uomo.  
 
Potremmo riassumere in questo modo tale riscatto: la ragione dell'uomo è aperta sulle cose stesse e il suo primo passo non è affatto il dubbio, di modo che sarebbe vero solo ciò che resiste al dubbio nella modalità di una conoscenza necessaria (= logicamente inconfutabile); il primo passo della conoscenza è l'apprensione della realtà.  
 
Siamo agli antipodi del criticismo kantiano, ma anche dell'hermesianesimo, il quale invece voleva che l'accesso alla fede fosse totalmente razionalizzato, secondo le esigenze dell'impostazione kantiana.  
 
Detto in altro modo: secondo Hermes, giustificare l'atto di fede significherebbe dimostrarne la razionalità, ma dimostrarne la razionalità comporta di raggiungere una necessità logica aprioristica, l'unica che, in un'ottica kantiana, è in grado di resistere ad ogni dubbio.  
 
Quanto alla credibilità delle fede, che cosa rimane fuori da questa impostazione? Che cosa non sarebbe un motivo di credibilità? Tutte quelle ragioni che non sono strettamente necessarie, tra cui, per esempio, proprio i miracoli.  
 
Perché un miracolo non è una necessità logica a priori, ma un elemento della realtà contingente. Pio IX stava difendendo il fatto che il valore della nostra intelligenza non si limita a ciò che può essere conosciuto a priori, secondo necessità logica, ma sta nel fatto che essa è aperta al reale.  
 
Veniamo al miracolo: nell'impostazione dell'hermesianesimo esso non ha una reale forza probante la soprannaturalità del cristianesimo, perché su esso si può sempre dubitare; nell'impostazione classica, difesa da Pio IX, invece, il miracolo può essere colto dalla nostra intelligenza aperta alla realtà, la quale poi deve ricercarne quel fondamento in grado di rendere ragione di quanto osservato, ossia la presenza di Dio.  
 
Qual è la più importante conseguenza di questa “ragione allargata”, per richiamare un'espressione cara a Benedetto XVI?  
 
Che si può giungere ad una conoscenza certa, anche se questa non è una conoscenza necessaria, perché l'intelletto è in grado di cogliere la realtà e di muovere così dall'ente al suo fondamento metafisico.  
 
In riferimento alle ragioni che muovono all'atto di fede, ciò significa che l'uomo è in grado di cogliere diversi motivi di credibilità che finiscono per convergere e fornire una prova certa della bontà razionale dell'atto di fede.  
 
Chiaramente, quanti più numerosi e solidi saranno questi motivi di credibilità, tanto più potremo giungere ad una conoscenza certa.  
 
Il Concilio Vaticano I, nella costituzione dogmatica Dei Filius, ha voluto confermare la ragionevolezza dell'atto di fede proprio sostenendo questa più ampia considerazione della conoscenza umana: i «fatti divini», in particolare miracoli e profezie, «manifestando in modo chiarissimo l'onnipotenza e la scienza infinita di Dio, sono segni certissimi della divina rivelazione, adatti a ogni intelligenza» (Denz. 3009), ossia adeguati alla razionalità umana, che è più ampia della razionalità critica kantiana o di quella scientifica.  
 
Per questo, lo stesso Concilio condannava l'affermazione che «i miracoli non possono mai essere conosciuti con certezza né servire per provare efficacemente l'origine divina della religione cristiana» (Denz. 3034).  
 
Pio X, nell'enciclica Pascendi, metteva in luce l'inaccettabilità di un'impostazione derivata da una sorta di agnosticismo scientifico.  
 
Egli condannava la posizione secondo la quale il mondo della realtà sarebbe appannaggio della conoscenza scientifica, mentre la fede si porterebbe su ciò che non è conoscibile dalla scienza.  
 
Questa dicotomia comporta che, nell'ambito fenomenico, sarebbe solo la scienza a determinare ciò che è vero e ciò che non lo è.  
 
«Quindi, qualora più oltre si ricercasse se Cristo abbia fatto veri miracoli e vere profezie, se veramente sia risorto e asceso al cielo, la scienza agnostica lo negherà, la fede lo affermerà; né perciò vi sarà lotta tra i due.  
 
Infatti lo negherà il filosofo in quanto filosofo parlando a filosofi e considerando Cristo unicamente nella sua realtà storica; l'affermerà il credente come credente parlando a credenti e considerando la vita di Cristo quale è vissuta dalla fede e nella fede».  
 
Questa posizione, che potrebbe apparire tanto “conciliante”, è stata condannata. Per quale ragione? Perché esclude che la ragione possa riconoscere un miracolo come opera divina; o il miracolo è riconosciuto dalla fede, oppure è negato dalla ragione scientifica.  
 
Come si vede, non c'è alcuno spazio per la “ragione allargata” di cui abbiamo parlato sopra. Pio X ha dunque voluto liberare la ragione da quel riduzionismo scientifico che vorrebbe rivendicare per sé la conoscenza certamente vera.  
 
Tutti questi interventi magisteriali ci aiutano a comprendere che la ragione dell'uomo è realmente in grado di riconoscere un miracolo o una profezia come segni certi della presenza di Dio. Vedremo la portata di questa affermazione nei prossimi articoli.  
 
 
Fonte  
 
 
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2024-06-02
Autore : Luisella Scrosati Fonte : La Nuova Bussola Quotidiana
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