Meditazioni per l'Avvento
Domenico Morelli - La samaritana al pozzo, 1880
Pellegrini di Speranza - Prima meditazione
Un dato antropologico
Sia lodato Gesù Cristo! La speranza, il desiderio, la sete sono innanzitutto un dato antropologico universale.
Non esiste essere umano che non speri qualcosa.
È solo l’essere umano che è in grado di sperare qualcosa.
Nessun altro essere spera qualcosa, se non a quel livello di istintività per cui i cagnolini fanno festa vedendo il padrone, perché sperano di ricevere un pezzo di salsiccia.
Solo l’uomo è capace di dire “io” e perciò è capace di sperare.
Noi cristiani, perciò, non possiamo pensare di essere i detentori esclusivi della speranza come domanda, perché la speranza come domanda appartiene ad ogni uomo.
Ogni uomo spera qualcosa.
Bisognerà vedere “cosa” spera, perché cambia completamente la prospettiva a seconda di quello che si spera: se la vita eterna o la vincita al superenalotto.
Ma l’uomo, in quanto uomo, è struttura di speranza.
Anche la donna samaritana che va al pozzo a mezzogiorno, sotto il caldo del sole di Samaria, spera qualcosa: spera di non incontrare alcun'altra donna. È una speranza “negativa”, ma in ogni caso spera.
Prima di dare un contenuto alla speranza, soffermiamoci su come siamo fatti e proviamo a scoprire che noi siamo ontologicamente “speranza”: il nostro essere è stato creato da Dio per sperare; per sperare qualcosa, dalle cose più semplici e belle alle cose più grandi.
Per il solo fatto di vivere, affermiamo che valga la pena vivere e dunque affermiamo di poter sperare qualcosa.
Il titolo del Giubileo “Pellegrini di speranza”, al di là della circostanza ecclesiale che prevede e include un pellegrinaggio, ci dice che la speranza, per sua natura è dinamica ed esige un pellegrinaggio: mi metto in cammino, in viaggio, in movimento per realizzare quella speranza, per vedere se quella speranza è realizzabile.
Non c’è nulla di più contrario alla speranza, dell’uomo che sta fermo.
Poniamoci perciò una prima domanda, che ci aiuta ad entrare nella dinamica del ritiro: io sono consapevole di essere una persona strutturalmente fatta di speranza, strutturalmente cioè aperta, fatta di domanda che esige una risposta? E questo mio “essere speranza” mi mette in movimento, mi fa pellegrinare?
Le due cose stanno insieme e si sostengono reciprocamente: più sono consapevole del mio essere speranza, più mi metto in movimento e mi scopro in movimento; e più mi metto in movimento e mi scopro in movimento e più divento consapevole del mio essere speranza.
Desiderio e speranza
La speranza – se volete – ha un fratello importantissimo, che è la declinazione più personale della speranza, senza il quale la stessa speranza, troppo “teologizzata”, diventerebbe qualcosa di umanamente, esistenzialmente distante: il fratello robusto e forte della speranza è il “desiderio”.
Noi siamo “desiderio e speranza”.
E più è forte in noi la coscienza di essere “desiderio”, cioè di essere domanda, più si dilata la speranza.
Più si rattrappisce in noi il desiderio, perché viene sepolto sotto la coltre di qualche cosa, perché ci sembra “scandaloso” desiderare qualcosa, più diminuisce la nostra speranza.
Desiderio deriva dal latino “de” più “sidera”: qualcosa che riguarda le stelle.
Questo desiderio, che è un dato antropologico universale, che riguarda cioè tutti gli uomini, scopriamo che è “infinito”.
Il dramma è che, a volte, confondiamo il desiderio che siamo con “i desideri”: lì cambia tutto e cadiamo dentro gli errori che vedremo insieme.
Speranza e desiderio stanno, perciò, insieme come espressione di ciò che veramente siamo.
Nessuno di noi ha deciso di essere così: noi siamo fatti così da Altro e non possiamo decidere, al mattino, di alzarci e di non avere più desideri, a meno che non siamo “morti”; ma se uno è vivo, per il solo fatto che è vivo, desidera qualcosa.
Siamo stati fatti da Altro così.
"Io reale" e "io ideale"
La prima battaglia, la prima lotta fondamentale della vita è accettare quello che noi siamo o lottare tutta la vita ostinatamente contro ciò che noi siamo.
Ma ci conviene passare tutta la vita a lottare ostinatamente contro quello che siamo? L’uomo moderno e contemporaneo sta facendo questo da due secoli e mezzo.
Ma l’“io ideale” – ciò che noi “crediamo di essere” – non coincide con il nostro “io reale”, ciò che veramente siamo.
Ma sapete il bello? Il bello è che l’“io ideale” lo vediamo solo noi, mentre tutti gli altri – tutti! – vedono solo il nostro “io reale”.
La realtà, gli altri, le relazioni ci richiamano continuamente, grazie a Dio, al nostro “io reale”.
L’io che spera, l’io che domanda, l’io che desidera è l’“io reale”.
Il primo lavoro che dobbiamo fare è domandare al Signore di staccarci dall’immagine che abbiamo di noi stessi e stare nella realtà.
Potremmo anche non avere un “io ideale” iper-valorizzato: sono “ideali” tanto gli io iper-valorizzati che quelli ipo-valorizzati.
In entrambi i casi, si ha sempre un problema di rapporto con la realtà.
Io penso al mio “io reale” dentro la realtà o mi rifugio continuamente dentro il mio “io ideale” e vivo tutto come un dramma, per cui ogni volta che la realtà non coincide con qualcosa che io penso vado in crisi.
Per questo oggi gli psicologi hanno tanto lavoro! Aderire al mio “io reale”, che è desiderio, domanda e speranza è molto più santo che rifugiarmi in un “io ideale” che non esiste, sia che la mia immagine sia iper-valorizzata, sia che la mia immagine sia ipo-valorizzata: tu sei domanda; tu sei voluto, amato e fatto da un Altro; tu sei pieno di enormi qualità e pieno di enormi limiti, ai quali a volte aggiungi anche il peccato.
Quando Gesù risponde alla Samaritana “Hai detto bene che non hai marito”, perché mentre lei presenta un’immagine di sé, Egli le rompe tutti gli schemi.
Le ha fatto una carità enorme: l’ha liberata dall’immagine che ella ha di sé, o che vuole dare di sé, e le fa vedere che quella sua realtà, per quanto drammatica, ha un senso.
Il desiderio e la speranza sono caratteristica universale di ogni uomo: noi siamo desiderio e siamo desiderio infinito.
Un dato di ragione
Possibile che l’essere umano sia solo un enorme contraddizione che non trova risposta a questo desiderio? La ragione umana, correttamente usata, ci porta sulla soglia del Mistero.
La ragione umana mi dice che deve esserci una risposta a questo mio desiderio, a questa mia speranza, pena il non senso di ciò che io sono, pena il non senso di quello che percepisco essere il vertice del mio io.
L’uomo che accetta il proprio essere desiderio, il proprio essere speranza è sospinto dalla sua stessa natura fino alle soglie del Mistero: qui animo satis, che cosa basta al cuore dell’uomo? Perché tutti i nostri fratelli non vivono così? Perché non vivono in questo modo e non hanno questo cuore aperto?
Perché di fronte ad una vibrazione di questo tipo, di fronte ad una coscienza così alta, se non c’è una risposta un po’ adeguata, l’uomo si spaventa.
Allora diventa vittima della cultura dominante, che cerca di sostituire la promessa di vita, di felicità e di speranza con un “pacchetto Amazon” che ti arriva a casa.
Dobbiamo fare memoria: non solo il Memoriale eucaristico, ma prima ancora memoria di ciò che noi siamo.
Tutti noi rischiamo di frenare e rattrappire il pellegrinaggio della speranza; rischiamo di ridurre questa dinamica che, se umilmente seguita, aderendo alla realtà che siamo e senza rifugiarsi nell’idea che abbiamo di noi stessi, ci conduce costantemente all’Essere.
Ascoltando la struttura del nostro essere veniamo condotti all’Essere.
Il Mistero, Dio ha deciso di chiamarci a Sé, di attirarci a Sé proprio attraverso la struttura dell’essere che Egli stesso ci ha dato.
Poi tutti gli altri aiuti sono essenziali: la creazione come segno di Dio, gli altri come compagnia guidata al Destino, l’Antico e il Nuovo Testamento.
Solo Cristo rivela pienamente l’uomo all’uomo
«Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo» (Vittorino, IV sec.).
Il Concilio Vaticano II riprenderà questa affermazione dicendo: «Solo Cristo rivela pienamente l’uomo all’uomo» (GS).
San Giovanni Paolo II, nella Redemptor hominis ribadisce lo stesso concetto: «Solo nel mistero di Cristo viene svelato pienamente l’uomo» (RH).
Se ribaltiamo l’affermazione, l’esito è sconvolgente: se uno non ha incontrato Cristo, non conosce e non comprende nemmeno sé stesso.
Corruzione del desiderio
Chi di noi salirebbe mai su di un treno, con i vetri oscurati, di cui non conosce la meta e che potrebbe finire nel nulla? Sarebbe disperante una vita così; senza meta e senza senso.
Per questo dalla Svizzera, propongono adesso il “Sarcò”: un sarcofago nel quale entrare, chiudersi, premere un bottone, inalare un gas letale e morire suicidi.
Questo piccolo “Sarcò” è la conseguenza logica del grande “Sarcò”, cioè della cultura contemporanea che ti dice che vieni dal nulla, che vai verso il nulla e che perciò non puoi essere altro che nulla, anche se non te lo dicono espressamente.
Nessuno può nuotare contro corrente da solo: tutti abbiamo bisogno di una compagnia.
Benedetti i desideri del cuore che mi fanno lottare, perché sono segno del grande desiderio di Dio.
Benedette quelle speranze, anche umane, umanissime e quotidiane, perché sono segno della grande speranza: la speranza che il treno abbia una meta e che la meta sia fantastica, sia bellissima.
Perché non riusciamo a stare sulla vertigine del nostro desiderio infinito? Perché spesso confondiamo il desiderio con i desideri: il desiderio di totalità con i desideri piccoli e rischiamo di soccombere sotto la dittatura dei nostri desideri.
Soccombiamo sotto la dittatura dei desideri, che addirittura pretendiamo che diventino leggi dello Stato, in alcuni casi, perché abbiamo dimenticato il grande desiderio.
Quali sono fondamentalmente le modalità con cui questo si realizza? Quando soccombiamo sotto la dittatura dei desideri, che non sono solo quelli della carne? Per quelli, basta una regola: il leone va tenuto in gabbia e frustato tutti i giorni. :-)
La dittatura del desiderio è la pretesa di essere noi stessi sempre e solo la misura di tutte le cose.
La prima dinamica è già stata assegnata: confondere il desiderio che ho nel cuore con l’immagine che io ho di esso.
È la differenza tra il sogno e l’ideale.
Il primo grande modo per soccombere ai desideri è seguire l’immagine che io ho del mio desiderio.
Le esigenze del mio cuore chiedono di essere realizzate, ma siccome io sento di non avere la forza di realizzarle, do forma a queste mie esigenze mediante il sogno.
Io sento di aver bisogno di essere felice, allora sogno di essere felice. Io sento di avere bisogno di essere amato, ma siccome non riesco a realizzare questo desiderio di amore, sogno di essere amato.
Cercando sé stesso, l’uomo inciampa su sé stesso: si aggroviglia nella sua ombra, nel suo sogno, nella sua immagine.
Un altro modo per ridurre il grande desiderio e diventare schiavi dei desideri è quello di seguire qualunque desiderio, senza alcun discernimento tra il vero, il bene, ciò che mi corrisponde realmente e ciò che non mi corrisponde.
L’appiattimento del desiderio crea solo disperazione, che è il contrario della speranza: il disperato non desidera più nulla; non vede più nulla di desiderabile; tutto è detestabile, a cominciare da sé stessi.
Sono condizioni patologiche, che possono sfociare anche nella malattia della mente: la mente umana non è fatta per la disperazione, ma per il desiderio.
Non solo quando i nostri desideri sono confusi, rischiamo di non vedere il reale desiderio, ma anche nel cammino lieto della speranza incontriamo delle contraddizioni: anche mentre costruiamo in noi e attorno a noi relazioni significative, sperimentiamo il limite della contraddizione e la contraddizione del male.
Come è possibile sperare davanti a queste contraddizioni? Come possiamo sperare se continuamente soccombiamo alla dinamica dei desideri che soffocano il grande desiderio? E chi mi insegna davvero a riconoscere ciò che realmente desidero? Nell’incontro tra la Samaritana e Gesù, Gesù insegna alla Samaritana a riconoscere ciò che lei realmente desidera: «Dammi di quest’acqua perché io non abbia più sete».
Chi mi fa trovare una risposta a tutto ciò che io desidero? Ci vuole qualcuno che mi educhi a leggere la verità dei piccoli desideri che abitano il mio cuore; qualcuno che mi aiuti a leggere la realtà attorno a me e dentro di me come “segno”: segno del grande desiderio.
Non c’è una contraddizione ultima tra il piccolo desiderio di attingere l’acqua, anche se in una modalità pensata per evitare di incontrare altre donne, e il grande desiderio di vedere il Signore! Solo che lo scopro quando incontro il grande desiderio, quando incontro il Signore.
Chi mi insegna a vedere ciò che “davvero” io desidero? Ci fermiamo e facciamo silenzio, mantenuto con rigore, rileggendo le provocazioni offerte e, se volete, il quarto capitolo di S. Giovanni.
Seconda meditazione
Gesù e il desiderio umano
Sia lodato Gesù Cristo!
Nell’incontro tra Gesù e la Samaritana, al pozzo di Sicar, il primo a prendere la parola e a porre una domanda è Gesù stesso; è Lui che rompe il silenzio e dice alla donna: «Dammi da bere».
Ci siamo soffermati ieri sulla speranza come elemento strutturale del mio io: io sono speranza; tutto il mio io grida il desiderio.
Bisogno e desiderio, in questo contesto, vengono utilizzati in maniera assolutamente sinonimica.
Culturalmente parlando, la parola “bisogno” è stata relegata ai bisogni primari, ma questa è una riduzione materialista di origine marxista: i bisogni primari, corrispondenti alle strutture primarie, sono mangiare, vestire e dormire; le altre sarebbero sovrastrutture.
Quando la Chiesa parla di bisogni, intende la struttura antropologica fondamentale.
Fatta questa premessa, anche i bisogni primari sono segno del bisogno di Cristo; il loro soddisfacimento, da solo, non potrebbe mai bastare.
All’invito forte di Gesù – «Dammi da bere» –, la Samaritana, anziché obbedire umilmente, oppone tutte le sue obiezioni: «Come mai tu che sei giudeo, chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?».
A volte facciamo lo stesso: il Signore ci chiede qualcosa di molto semplice, che però non rientra in quello che noi ci aspettavamo e, allora, scattano tutte le nostre obiezioni.
Ad ogni modo, mai un rabbì rivolgeva la parola ad una donna e mai un giudeo si rivolgeva ad una samaritana. Sono due obiezioni enormi.
Siamo certi che la speranza mantenga il nostro cuore aperto, senza che rimanga prigioniero delle proprie obiezioni e pre-comprensioni? Siamo certi di riconoscere ciò che accade, o siamo così chiusi da non accorgerci di ciò che avviene dinanzi a noi? Gesù non si lascia intimorire che la nostra pre-comprensione di Lui Gli impedisca di essere ciò che Lui è: Lui vuole essere Tutto per noi.
Per cui, va subito in medias res: «Se tu conoscessi il dono di Dio e Chi è Colui che ti chiede da bere, tu stessa Gli avresti domandato ed Egli ti avrebbe dato acqua viva».
La samaritana insiste con le sue obiezioni: «Signore, tu non hai da attingere e questo pozzo è profondo.
Da dove prendi quest’acqua viva? Sei forse tu più grande del nostro padre Giacobbe, che vi attinse e ne diede da bere per tutto il gregge?».
Gesù non si scoraggia: «Chiunque beve di quest’acqua avrà ancora sete. Chiunque beve dall’acqua che Io gli darò non avrà più sente, e l’acqua che Io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».
Al che, la Samaritana, che obietta ma che non è stupida, chiede: «Signore, dammi sempre di quest’acqua».
Gesù non promette di toglierti la sete, perché il desiderio sarà per sempre.
Gesù ti promette che questa sete e questo desiderio trovano risposta.
Nella mia vita, è successo mai qualcosa che mi ha fatto sperare? Pensate a quando avete preso in braccio il vostro figlio appena nato; pensate a quando avete incontrato l’amore; pensato a quando una vostra attesa si è compiuta.
Pensiamoci.
La prima obiezione alla speranza è sottrarci a quello che ci succede. La prima obiezione alla speranza è sottrarci a quello che ci accade.
Ella si sottrae, perché al pozzo c’è qualcuno, perché è un rabbì che si rivolge ad una donna, un giudeo che si rivolge ad una samaritana.
Il primo modo che tutti abbiamo di soffocare la speranza è sottrarci a quello che succede, sottrarci alla realtà.
È dentro la realtà, infatti, che noi abbiamo la possibilità di rintracciare segni di speranza.
La realtà, a volte, pare dura e si presenta come una contraddizione, ma mai è solo una contraddizione: «Come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?».
Gesù ha chiesto da bere e, dentro questa domanda, c’è il desiderio che Cristo ha della tua libertà, del tuo sì.
Egli mendica il tuo cuore, Egli ha sete di te e domanda: «Dammi da bere».
Questa domanda tornerà nel momento cruciale della Sua vita, quando si troverà sul Calvario e, tra le ultime sette parole in Croce, Egli dirà: «Ho sete».
La realtà risveglia in noi il desiderio
Non dobbiamo, però, preoccuparci di rispondere a questa domanda in modo moralistico: prima di tutto, la Sua domanda ha lo scopo di risvegliare in noi ciò che siamo, la domanda che siamo, il desiderio che siamo, la nostra coscienza.
Siamo, infatti, sempre tentati di addormentarci, riducendo la realtà intorno a noi, per sottrarci alla provocazione che la realtà è.
È sempre la domanda di un altro che ci provoca, che ci costringe a rispondere per noi stessi e, quindi, poi, anche all’altro.
Se uno ti domanda che senso abbia una cosa, tu non puoi rispondere se tu per primo non sai che senso abbia quella cosa.
Chi è attorno a noi e ci provoca, ci fa una grande carità.
Anche se, a volte, la domanda è posta in modi violenti, drammaticamente “irricevibile”, comunque rappresenta una salutare provocazione alla nostra libertà.
Anche quando ti domandano qualcosa attaccandoti, umiliandoti, è sempre una provocazione alla libertà, perché sei sempre libero di rispondere a quel modo di domandare.
Richiede grande esercizio, ma qual è la cosa più vera, quella che maggiormente determina, anche nell’altro, la possibilità dello stupore: se tu rispondi ad un attacco con un attacco uguale e contrario, o addirittura maggiore, oppure se decripti quell’attacco, se lo smonti dal di dentro, e fai emergere la domanda che c’è dentro?
Queste cose – lo capiamo subito – sono impossibili alla nostra natura umana ferita. Sono possibili solo con l’aiuto della grazia.
Sono possibili solo se noi abbiamo un’intimità tale con Dio, da riconoscere anche nella provocazione una domanda.
Il primo passo è non sottrarsi alla realtà, come cerca di fare la Samaritana.
«Dammi da bere» risveglia il nostro desiderio, lo desta e ci fa intuire che quel desiderio, che quella speranza, che ho paura che non venga compiuta, possa avere una possibilità di risposta.
Tutto quello che facciamo, infatti, è vivo o è morto, a seconda del desiderio, dalla speranza che vi è dentro.
Se io non avessi la speranza che i miei alunni imparino qualcosa e se non avessi la grande speranza che, attraverso questo incontro, possano incontrare Cristo, non aprirei nemmeno la bocca.
La speranza è ciò che permette alla vita di essere vita, ciò che permette alla vita di fiorire.
La risposta ci viene incontro
La Samaritana, quel giorno, non si aspettava di incontrare nessuno: voleva portare via la sua brocca d’acqua, non voleva incontrare le donne del villaggio, voleva stare per conto suo.
Ma, è proprio quando vogliamo farci i fatti nostri che accade qualcosa.
Attenzione però: la modalità di ciò che accade non è nelle nostre mani.
Non ho detto che accede qualcosa di bello o qualcosa di brutto. Ho detto che accade qualcosa: qualunque cosa accada nel nostro orizzonte esistenziale provoca la nostra libertà, provoca la nostra reazione.
La reazione può essere in modo assolutamente istintivo, oppure può essere animato dalla nostra libertà.
Per due volte la Samaritana obietta. Solo la terza volta cede, perché non è immediata una reazione positiva a ciò che accade.
Dobbiamo educarci e dobbiamo mendicare la grazia di abbracciare la realtà. Dobbiamo mendicare la grazia che la realtà non sia letta come nemica della nostra speranza, ma sia l’occasione della nostra speranza.
Una eccezionale corrispondenza
La vera speranza fiorisce quando accade, nella nostra vita, un fatto eccezionale: un fatto sperimentabile, storico, che posso vedere e toccare.
Cosa significa “eccezionale”? Vuol dire che accade qualcosa con cui noi sperimentiamo una eccezionale corrispondenza.
L’eccezionalità non sta anzitutto nel fatto miracoloso – potrebbe anche –, ma nell’eccezionale corrispondenza che io percepisco.
A tutti noi è capitato di percepire, nell’incontro con una persona, nella preghiera, durante il canto, mentre stavamo in silenzio, un momento di eccezionale corrispondenza.
Come Pietro sul Tabor: «Signore, è bello per noi stare qui».
Non sapeva come dirlo, ma stava esprimendo questo: la percezione, la scoperta di una radicale corrispondenza.
Qualcuno mi diceva, in queste ore, «Che bello essere qui, vorrei che la vita fosse sempre così».
La vita è sempre questa: compagnia di Cristo alla tua vita.
Non è che quando sei a casa, al lavoro, in metro, sul bus Cristo non ci sia.
Qui è più evidente, perché siamo in una compagnia guidata e perché ci aiutiamo a riconoscerLo, ma non è che Cristo sia solo qui, anzi.
Questo è solo un momento per ricominciare e riconoscerLo insieme per poi poterLo riconoscere insieme.
Lui c’è sempre.
Il miracolo è che accada qualcosa di eccezionale, che mi fa percepire una radicale corrispondenza, alla fine, con Lui, con Cristo stesso.
Il fatto che tu percepisca una sproporzione tra il tuo desiderio e la realtà non è una condanna che Dio ha messo nel tuo cuore perché tu non sia più felice: la sproporzione è ciò che fa diventare tutto più intenso, perché mi permette di vivere tutto con dentro un desiderio.
Compimento del desiderio
«Signore, dammi sempre di quest’acqua».
Certo è una domanda, animata da un risvolto pratico, cioè dall’attesa di non dover tornare sotto il sole ad attingere acqua.
Cosa c’è dietro questa espressione? Il pensiero che ci possa essere qualcosa che estingua il nostro desiderio.
Anche in Paradiso noi avremo il desiderio e guai se non avessimo il desiderio di immergerci in Dio: è per questo che il Paradiso è una gioia senza fine, perché il nostro desiderio viene eternamente compiuto.
Vi fa eco il canto di Dante nel Paradiso: «Oh, se io mi inTuassi come Tu ti immii…!».
Non esistono queste parole, ma Dante, in modo geniale, ha piegato le parole al significato teologico, come ha fatto la Chiesa nei primi Concili, quando ha usato le parole umane, piegandole al significato teologico e così risemantizzandole e dando loro un nuovo significato: essenza, sostanza, persona.
Il mondo risemantizza continuamente le parole: per i vostri figli, la “rete” è quella di internet; per me, la rete è quella del pescatore.
Per l’uomo contemporaneo, “persona” significa “individuo”; per la Chiesa, “persona” significa “relazione”.
Vedete come è importante entrare nel significato delle parole? Il desiderio non viene meno, nemmeno in Cielo, e Lui lo compie.
Ma questo desiderio, in germe, accade già sulla terra.
Il compimento della promessa, in fondo, è la ragione di ogni speranza. Noi possiamo sperare solo se c’è un compimento.
Quando hai scelto con tuo marito la data del matrimonio, quella speranza iniziale è diventata più forte, perché sperimentava la prossimità di un compimento.
La speranza ha bisogno di una data, di un fatto storico e sperimentale: «E l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».
L’incontro con Cristo, con questa corrispondenza eccezionale, cambia la mia vita e fa diventare noi stessi una fonte zampillante di acqua, che era stata attivata in me nel giorno del Santo Battesimo.
In te c’è già questo dono, una sorgente di acqua zampillante per la vita eterna, infatti la Chiesa ci insegna che Battesimo, Cresima e Ordine Sacro imprimono un carattere indelebile, un sigillo che rimane per la vita eterna.
La sorgente c’è già: sei tu che chiudi il rubinetto continuamente.
San Bernardo, grande amico di Gesù, scrive: «Mi chiedi come io possa venire a conoscenza della sua presenza? Egli è vivo e operoso, e subito, appena entrato ha risvegliato la mia anima sonnecchiante; ha scrollato, raddolcito e ferito il mio cuore, perché era duro come pietra e malsano. Ha cominciato a sradicare e a distruggere, a costruire e a piantare, a irrigare le zone aride, a illuminare i recessi tenebrosi [...], in modo tale che la mia anima si è messa a benedire il Signore».
Se teniamo chiusa la fontana che il Signore ha aperto in noi col dono del Battesimo, allora il nostro giardino rimane arido, ma non perché il Signore non ci dia l’acqua, bensì perché noi abbiamo chiuso la fontana.
Solo l’esperienza di un grande amore, può vedere ridestare la speranza della vita, tanto da non vedere nemmeno più gli altri piccoli amori: chi non fa esperienza, anche fosse di un grande amore umano, fa esperienza di compimento e non si preoccupa più di altro.
L’esperienza che il mio grande desiderio possa essere compiuto, ridesta la mia speranza e mi rende libero dalla dittatura dei desideri.
La Samaritana, che era tutta prigioniera dei suoi desideri, incontra Cristo e l’incontro con Cristo, che le promette di far nascere in lei una sorgente zampillante che sgorga per la vita eterna, cioè di compiere il suo grande desiderio, la libera dagli altri desideri.
Dietro ogni desiderio, in fondo, c’è sempre e solo il grande desiderio.
Desiderio e amore di Dio
Amare significa dire all’amato “Tu non morirai mai”, cioè “Tu sei per la vita eterna”, “Tu sei per sempre”.
Noi non possiamo fare autonomamente questa promessa, ma è la promessa che Dio fa a noi e che noi ripetiamo per noi e per gli altri.
Tra le tante, stupende parole che Gesù pronuncia nel discorso di addio agli Apostoli, c’è un’espressione di sole tre parole che è sconvolgente: «Pater vos amat».
Gesù lo dice ai Dodici, compreso Giuda, non escluso Giuda, e per mezzo loro lo dice a tutti gli uomini: «Il Padre vi ama» significa che la nostra vita è per sempre perché si fonda sull’amore infinito di Dio.
Noi possiamo liberare la libertà solo attraverso l’incontro con questa sorgente d’acqua zampillante che è in te.
Non va cercata chissà dove: è in te perché Cristo l’ha generata in te.
Quando si avvicinano a me, i fratelli trovano acqua che zampilla, o incontrano un deserto? E io, trovo in qualcuno acqua che zampilla? I santi sono queste sorgenti d’acqua che continuano ad offrire nella Chiesa e al mondo acqua, perché nessuno debba morire di sete.
Benedetto XVI, nell’omelia di inizio pontificato, ci ha detto:
«Chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana.
Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera.
Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Poi, riprendendo le parole di San Giovanni Paolo II, dice ancora – Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita. Amen».
Verità e liberazione
«Venite a vedere uno che mi ha detto tutto ciò che io ho fatto. Che sia Lui il Messia?».
Si spalanca la porta della speranza e non nasce dall’esperienza di essere stata accolta, ma dalla verità di sé: «Mi ha detto tutto ciò che io ho fatto».
L’esperienza che ci libera è l’esperienza della verità di noi e che questo io è amato da Dio e che questo amore suscita in noi una corrispondenza che mi libera.
«Aprite, spalancate le porte a Cristo e troverete la vita».
La tua libertà si gioca tutta davanti a questa decisione: «Che sia Lui il Messia?», che sia Dio la risposta a tutta la mia sete di speranza? Puoi rispondere di no, oppure puoi rispondere di sì, o, per lo meno, vediamo.
La speranza come virtù
Il grandissimo autore cattolico francese Peguy, in un’opera dal titolo “Il portico del mistero della seconda virtù”, vale a dire la speranza, ha un testo bellissimo.
È un testo nel quale, egli immagina Dio che guarda l’uomo e fa delle osservazioni:
«La fede non mi stupisce. Non è stupefacente. Risplendo talmente nella mia creazione (dice Dio). Nel sole e nella luna e nelle stelle. In tutte le mie creature e nell'uomo.
La carità, dice Dio, non mi stupisce. Non è stupefacente.
Queste povere creature sono così disgraziate, che a meno di avere un cuore di pietra, sarebbe impossibile non avere la carità le une per le altre. Come non avrebbero carità per i loro fratelli. Come non si toglierebbero il pane di bocca, il pane quotidiano, per darlo a dei bambini disgraziati che passano. Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce. Me stesso. Questo è stupefacente. Che quei poveri figli vedano come vanno le cose e che credano che andrà meglio domattina. Questo è stupefacente ed è proprio la più grande meraviglia della nostra grazia. E io stesso ne sono stupito. E dev'esser perché la mia grazia possiede davvero una forza incredibile… La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere non c’è che lasciarsi andare, non c’è che guardare. Per non credere bisognerebbe farsi violenza, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Prendersi a rovescio, mettersi al contrario, riprendersi. La fede è tutta naturale, tutta alla buona, tutta semplice. Tutta semplice.
E va e viene del bello e alla buona. È una buona donna che si conosce, una vecchia e buona parrocchiana, una buona donna della parrocchia, una vecchia nonna, una buona parrocchiana.
Ci racconta le storie del tempo antico, che sono accadute nel tempo antico. Per non credere, bambina mia, occorrerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie. Per non vedere,per non credere. La carità disgraziatamente va da sola. La carità cammina da sola. Per amare il proprio prossimo non c’è che lasciarsi andare, non c’è che guardare una simile desolazione. Per non amare il prossimo occorrerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi.
Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi all’inverso.
Rimontarsi. La carità è tutta naturale, tutta zampillante, tutta semplice, tutta alla buona. È il primo movimento del cuore. È il primo movimento che è quello buono.
La carità è una madre e una sorella. Per non amare il prossimo, bambina mia, occorrerebbe chiudersi gli occhi e le orecchie. A tante grida di desolazione. Ma la speranza non va da sola. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, occorre essere molto felici, occorre aver ottenuto, ricevuto una grande grazia. È la fede che è facile e non credere che sarebbe impossibile. È la carità che è facile e non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile».
Per questo vi ho chiesto se è accaduto qualcosa che vi ha fatto sperare: «Per sperare bisogna essere molto felici, per sperare bisogna aver ricevuto una grande grazia».
La speranza e la presenza di Cristo
Se siamo qui, è perché abbiamo incontrato Cristo attraverso le circostanze e ci ha reso molto felici.
Ed è questo ciò che rimane: ciò che rimane è la sua Presenza e la speranza è continuare a guardare la Sua Presenza presente, cioè che oggi c’è.
E quando noi diciamo di non avere speranza, la questione è che vacilla la certezza della fede, sempre.
La verità, la possibilità, la stabilità della mia speranza dipende dalla certezza della fede.
Non dire mai “Non ho speranza”, ma “Come sta la mia fede?”.
Terza meditazione
La speranza e la tentazione dello scetticismo
Sia lodato Gesù Cristo! Qual è il rischio di chi percepisce tutta l’urgenza del proprio desiderio, ha incontrato qualcosa, Qualcuno, che è accaduto nella sua vita e perciò ha percepito la possibilità di una risposta al desiderio, e poi però si trova quasi deluso? Il rischio è quello di pensare che, sì, il mio desiderio sia grande, che, sì, Cristo ci sia perché L’ho sperimentato, ma che, in fondo, Cristo non mantenga la promessa che fa.
È il rischio di uno scetticismo ultimo, anche su Cristo.
È il rischio che abbiamo anche nel rapporto con Lui: Lo abbiamo incontrato, ne abbiamo fatto esperienza, ci siamo entusiasmati per Cristo, ci siamo scaldati per Lui, ma, poi, è come se fosse penetrato un sottile scetticismo anche nel rapporto con Lui.
Perché? Perché noi ci aspettiamo che il compimento, la risposta, sia come questo bicchiere pieno d’acqua, che, una volta pieno, non può più contenere acqua, perché è pieno appunto.
Abbiamo un concetto di compimento, di appagamento meccanicistico, come se l’incontro con Cristo debba essere come l’acqua che riempie il bicchiere, che, una volta pieno, non ce ne va più e deve lasciarmi soddisfatto.
Come tutte le immagini, quella del bicchiere è un’immagine imperfetta. Non c’è scritto da nessuna parte che il compimento che Cristo mi offre estingua la mia domanda.
La prima cosa che ci siamo detti ieri è che noi non “abbiamo” delle domande: noi siamo una domanda. Noi non “abbiamo” dei desideri: noi siamo desiderio. Noi non “abbiamo” delle speranze, noi siamo strutturalmente fatti di speranza.
Per questo noi ci alziamo al mattino e diciamo “O Dio, vieni a salvarmi”: perché quella risposta al bisogno che io sono si rinnovi continuamente.
Facciamo molta attenzione alla tentazione mondana dello scetticismo. Perché lo scetticismo, ultimamente, che cos’è? È un’affermazione della tua misura sulla realtà che hai incontrato.
Siccome la realtà che hai incontrato non è come tu te la immaginavi, allora non ti appaga.
È di nuovo la confusione tra il sogno e la realtà, tra l’io-ideale e l’io-reale. Tantissimi, anche cristiani, fanno questo errore.
Il centuplo che il Signore promette c’è e non è solo per i consacrati, bensì per tutti.
Il centuplo è per tutti noi, per tutti coloro che hanno incontrato Cristo e hanno scelto di riconoscerGli il primato nella propria vita: Cristo ha già il primo posto, ma noi possiamo riconoscerGlielo o meno.
Il problema è che questo centuplo mi viene dato non secondo la mia misura, bensì come vuole Dio.
Chi è padre e madre sa che i figli non sono come noi li vogliamo, ma come Dio ce li ha dati e ce li teniamo.
E viceversa.
Pensate al dramma di un padre e di una madre che rifiutano un figlio perché non è come volevano loro.
La realtà è così: ci è dato il centuplo, ma ci è dato non secondo la nostra attesa, non secondo la nostra misura.
Dal dubbio alla preghiera
Il grande balzo avanti, nella realtà, è trasformare, con tutte le nostre energie e con l’aiuto che sta attorno a noi, il dubbio in preghiera, il dubbio in domanda.
Perché se il dubbio rimane dubbio diventa come un verme che, dal di dentro, progressivamente mangia la mela e la distrugge.
Se invece diventa preghiera, domanda, allora cambia lo sguardo: non è un dramma che ti venga un dubbio sull’incontro che hai fatto, non è un dramma che tu abbia un dubbio sulla sorgente d’acqua viva che ti è stata data nel giorno del tuo Battesimo.
Non è un dramma, ma tu trasformalo in domanda: «Signore, credo. Aumenta la mia fede».
È un’affermazione anzitutto, che chiede di aumentare questo bene iniziale che percepisco. O, come diceva Dante, «Se io mi inTuassi come Tu ti immii».
Siamo nel Tempo d’Avvento e ci prepariamo a festeggiare il Natale di Cristo, che si è immedesimato con noi, con te, con me.
E l’aspetto ulteriormente bello dell’affermazione di Dante è che il “come Tu ti immii” è al presente: Egli viene ora.
È venuto, viene e verrà.
È soltanto il mio scetticismo ultimo che non mi permette di vederLo, di riconoscerLo. Il centuplo mi è dato, ma non secondo la mia misura.
Vigiliamo e lottiamo contro l’imposizione a Dio della nostra soggettiva misura. Lui ce lo ha detto in tutti i modi: «Le mie vie non sono le vostre vie».
Speranza e felicità
Che cosa vince in breccia lo scetticismo? Cosa vince in breccia l’ultima misura che io voglio imporre al Signore? Una cedevolezza, un cedere al Suo fascino, come la Samaritana al pozzo che – ne sono sicuro – non si è mai sentita guardata da nessuno dei suoi cinque mariti, come Gesù l’ha guardata in quel momento.
Tutti quegli sguardi sono svaniti di fronte allo sguardo penetrante di Cristo su di lei.
Perché? Perché l’ha guardata secondo il suo destino.
Quando vi preoccupate della fede dei vostri figli, della distanza dei figli dalla grazia e dai sacramenti, state guardando i figli secondo il loro destino.
Poi, non bisogna essere insistenti e petulanti, sennò i figli perdono anche la poca fede che gli è rimasta: pregate e fate penitenza, implorando da Dio la grazia per i vostri figli.
La corrispondenza di Cristo al desiderio del nostro cuore non estingue il desiderio, anzi lo ravviva: tutti cerchiamo, incontrato un amore, di viverlo ancora e ancora, in quel “per sempre” che, umanamente parlando, è il matrimonio.
Com’è possibile incontrare il Signore, sperimentarne tutta la corrispondenza, e poi non voler più stare con Lui? Come mai non abbiamo questo desiderio “ansioso” – nel senso buono – per cercare di stare con Lui, alla Sua Presenza, riconoscendoLo sempre di nuovo? La riduzione nella quale sistematicamente cadiamo è tale, che abbiamo ridotto la parola speranza ad una “improbabile possibilità”.
Che riduzione folle! La speranza è speranza di compimento totale, mentre, nel linguaggio comune, l’abbiamo ridotta ad un’improbabile possibilità.
Questa è la riduzione secolarizzata della grande speranza cristiana, che è così viva che stupisce perfino Dio: per poter sperare bisogna essere molti felici – diceva Peguy –, per poter sperare bisogna aver ricevuto una grande grazia, che ha rinnovato la vita.
Che cosa è la felicità? Per S. Tommaso d’Aquino la felicità è la beatitudine eterna, che non è staticità, bensì movimento, così come è movimento la Ss.ma Trinità, che è Relazione tri-personale.
Felicità e volontà di Dio
La felicità è stare fermi o in movimento? La felicità è stare da soli o in compagnia durante il viaggio? La felicità è fare la nostra volontà o la volontà del Padre? «“E 'n la sua volontade è nostra pace», dice Dante.
Noi lo ripetiamo – «Sia fatta la Tua Volontà» – ma quanto siamo scettici mentre lo ripetiamo.
Vi svelo un segreto: nemmeno se tutti i vostri desideri fossero compiuti, sareste felici. La felicità non è una volontà realizzata, ma una relazione vissuta.
La felicità non prende la direzione del mio intelletto o della mia volontà, ma solo la direzione dell’amore.
I momenti più felici della nostra vita non sono quelli in cui abbiamo affermato il nostro intelletto o la nostra volontà, ma quelli in cui siamo stati affermati dall’amore di un Altro, che ci ha detto: «Tu non puoi morire, Tu sei per sempre».
Tutti l’abbiamo ricevuto, alcune ore fa, nella Santa Comunione: ogni volta che ci accostiamo alla Santa Comunione, Dio ci dice «Tu non morirai mai, perché Io sono per te farmaco d’immortalità».
Tutte le nostre piccole felicità costruiscono la nostra personalità, ma non facciamo l’errore di confondere l’affermarsi delle nostre idee e della nostra volontà con la felicità: «A che vale all’uomo conquistare il mondo intero, se poi perde la sua anima?», e ancora «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà. Chi perderà la propria vita, per causa Mia, la troverà».
Felicità e dolore
Se noi lottiamo ancora contro questa logica, abbiamo compreso poco del Vangelo.
Se noi lottiamo contro questa logica, possiamo trasformarci in nemici della Croce, come Gesù dice a Pietro quando obietta all’annuncio della Croce: «Via da me satana, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
La tentazione del maligno è quella di svuotare la logica della Croce. Non siamo doloristi e non cerchiamo mai una sofferenza fine a sé stessa.
La Croce non è obiezione alla nostra felicità. Al contrario, è condizione della nostra felicità.
«Sin dolor, no hay Gloria – senza dolore, non c’è Gloria», dicono i pellegrini di Santiago di Compostela.
Il dolore qui è quello dei piedi doloranti per il lungo cammino, ma teologicamente è il dolore della Croce, come condizione della Risurrezione.
Indicazioni di medito per una fede certa
Per arrivare ad una fede certa che non imponga a Dio la mia misura, bisogna percorrere lo stesso cammino che hanno percorso gli Apostoli.
Gli Apostoli, con tutto il loro limite, sono giunti ad una fede certa.
Essi hanno vissuto due indicazioni di metodo: la convivenza, nel tempo, con Gesù, cioè con la Sua Presenza e l’educarsi progressivamente a leggere i segni che Gesù poneva.
Perché abbiamo messo in piedi, con fatica e lavoro, l’adorazione continua in Parrocchia? Perché qui al ritiro abbiamo vissuto l’adorazione notturna? Per educarci alla Sua Presenza.
Perché la Chiesa celebra i Misteri divini? Per educarci tutti alla Sua Presenza.
La progressiva educazione degli Apostoli alla Presenza di Cristo – educazione che ha bisogno di tempo – li ha resi anche capaci di leggere i segni che Egli pone nella nostra giornata.
L'entusiasmo nella relazione con Cristo
Noi dovremmo svegliarci al mattino avendo l’entusiasmo e il desiderio di chi domanda al Signore: «Oh Signore, oggi che cosa hai preparato per me? Oggi dove potrò incontrare la Tua Presenza?».
Questa curiosità nello scoprire, giorno dopo giorno, che cosa di straordinario il Signore ha preparato per noi.
Pensate che positività in noi e attorno a noi per chi si sveglia così, in chi attende la Sua Venuta, istante dopo istante.
Così la vita acquista un fascino straordinario, perché non c’è nulla della vita, non c’è nessun dettaglio che sia estraneo a me e a Cristo.
Tutto è in relazione con Cristo, anche la fatica più grande.
Stare con Lui, diventare entusiasti di Cristo e della Sua Presenza, leggere i segni della Sua Presenza.
Una fede che cammina così è una fede certa.
Come la certezza di un bambino che sa di essere amato dalla sua mamma e dal suo papà. E se fa una marachella e la mamma lo sgrida, poi torna e le chiede “ma mi vuoi ancora bene?” e la mamma lo rassicura.
Questa è la misericordia.
Per questo dobbiamo tornare come bambini – dice Gesù –, cioè a questa semplicità di adesione alla realtà.
Gli Apostoli, quando si svegliavano al mattino, erano contenti di andare da Gesù, perché erano contenti, protesi a vedere cosa quel giorno sarebbe accaduto.
Speranza e memoria
La speranza ha un rapporto essenziale con la memoria di ciò che abbiamo incontrato, con la memoria, cioè il riconoscimento di Cristo Presente, con il riconoscimento della Sua Presenza presente.
Io sarò tanto più capace di speranza, sar tanto più pellegrino di speranza, quanto più sarà potente in me la memoria di Cristo Presente, i riconoscimento in me e attorno a me della Sua Presenza presente.
Da un lato, è una grazia non riconoscere tutto, perché altrimenti rimarremmo paralizzati in adorazione.
È una grazia che Egli abbia messo un velo sulla Sua Presenza, perché altrimenti rimarremmo tutti paralizzati e non potremmo vivere.
La distrazione da Cristo, allo stesso tempo, però, è la radice di ogni altro peccato.
Speranza e verginità
La speranza non è uno scetticismo ultimo, non è un compimento secondo la mia misura, ma è un fiore spontaneo all’interno dell’assenso di fede, all’interno della semplice adesione a Cristo nella certezza di essere amati, all’interno di questa esperienza in cui Egli ci precede e ci dona di aderire a Lui più che alla persona che più amiamo, senza che la persona che più amiamo ne abbia a male.
Questa è anche la garanzia di amare ed essere amati davvero.
Com’è difficile accettare che l’altro appartenga più a Cristo che a me? Questa è anche castità matrimoniale, la verginità all’interno del matrimonio.
Penso a quelli, tra voi, che fanno l’esperienza di un figlio chiamato alla vita consacrata: questa è un’esperienza in cui Cristo diventa carne della tua carne.
Ti è stata data una vita: l’hai data alla luce, nutrita, educata, vista crescere e poi, all’improvviso… non è più tuo.
Questo è un segno enorme di come Cristo passa nella nostra vita: ci chiede di riconoscerLo e amarLo più di chiunque altro.
Nessuno afferma il tuo io più di Dio.
Quando Benedetto XVI all’inizio del Pontificato dice che «Cristo non toglie nulla, ma dona tutto», sta dicendo questo: «Nessuno afferma il tuo io più di Dio».
Noi che siamo piccoli, invece, pensiamo di dovere affermare noi stessi “contro” Dio e che la nostra affermazione “autonoma” sia migliore di quella che Dio ci dona.
Nessuna auto-affermazione ci può appagare più di una relazione d’amore significativa con Cristo, capace di abbracciare e dare compimento ad ogni altro amore.
Senza Cristo, invece, nessun amore regge: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo».
Sant’Agostino: «Quando commetto il peccato, sono io a commettere il peccato. Quando commetto il bene, è la Grazia di Dio che opera in me».
Rapporto con Dio e libertà
C’è solo una cosa che è assolutamente mia e che posso mettere in gioco: la tua libertà.
Dio può disporre di tutto di noi, persino della nostra vita, ma non può disporre della nostra libertà: Dio decide di auto-limitare la Sua Onnipotenza, per lasciare noi creature davvero liberi.
Per questo San Paolo dice: «Cos’hai che non ti sia stato dato? E se ti è stato dato, perché te ne vanti come se non ti fosse stato dato?». Tutto mi è stato dato, anche la mia libertà.
Il punto è come usarla, perché la partita della libertà è la partita più importante di tutta la nostra vita.
Canteremo nell’Avvento «Oh, se Tu squarciassi i Cieli e scendessi!». Lui ha già squarciato i Cieli ed è sceso.
Ma lo ha fatto in un modo che passa, continua a passare attraverso il segno.
E noi siamo così poco affezionati alla nostra libertà, che vorremmo l’evidenza. Se la libertà sceglie di non vedere, di non riconoscere e interpretare un segno, anche tra di noi, non possiamo fare nulla per la libertà dell’altro, se non mendicare che accada qualcosa.
Una vita donata
Per vivere questo bisogna “togliersi la pelle di dosso”.
Ma il Padre eterno ha fatto così: ci ha donato il Figlio.
Il Figlio è morto sulla Croce.
È la logica dell’amore che dona la speranza.
Solo chi dà la vita per l’altro fa sorgere la speranza.
Soltanto i cristiani, che hanno capito chi è Dio, che hanno visto chi è Dio, che stanno sotto la Croce con un Dio-Amore Crocifisso e che esultano per la Risurrezione possono sperare.
Tutti gli altri hanno ragione ad essere disperati, perché senza un Dio così, che si fa uomo per te, che muore per te e che vince le barriere della morte con la Risurrezione, saremmo disperati. Un Dio che ci ama così è credibile.
«Solo l’amore è credibile» dice Von Balthasar o, in spagnolo, «Sólo el Amor es digno de fe – solo l’Amore è degno di fede».
Noi crediamo perché quest’Amore si è manifestato e ha dilatato i confini della speranza.
Per questo tutte le contraddizioni in noi e attorno a noi, anche quelle nella Chiesa, non possono ridurre i confini della speranza, perché non scalfiscono minimamente l’Amore che Dio è, l’Amore che Dio ha per noi, l’Amore di Dio per la Sua Chiesa.
Se le contraddizioni nella Chiesa fanno male a noi, pensate quanto fanno male a Gesù, che ha pena per noi, perché vede che costruiamo la nostra infelicità, sia mondana che cristiana.
Speranza e coscienza
Il grande alleato di Dio è la coscienza, che sa sempre cosa è bene e cosa è male. Dio, nella coscienza, regna sovrano.
Nella coscienza c’è l’immagine e la somiglia di Dio e perciò la coscienza grida salvezza, grida amore per Dio, grida bisogno di significato.
La coscienza è strutturalmente speranza.
Il fatto che permanga in noi il desiderio non è segno che non abbiamo incontrato la risposta o che la risposta non sia adeguata, ma è proprio il segno che abbiamo incontrato la risposta e che la risposta sia infinita e, perciò, mette sempre in moto il nostro bisogno.
La Samaritana al pozzo si è messa in moto perché Gesù le ha chiesto «Dammi da bere» e, dopo aver obiettato, si è aperta, perché ha intuito la possibilità di un’acqua viva che soddisfacesse la sua sete.
La vera preghiera è ripetere, davanti al Signore, come sempre facciamo: «Signore, io sono Tu che mi fai».
Tutto quello che vi ho detto, lo ha prima vissuto e poi descritto in maniera stupenda San Paolo nella Lettera ai Filippesi.
Al terzo capitolo, dal v. 7 al v. 15, San Paolo descrive esattamente questa speranza, sovvertendo tutte le nostre logiche mondane: «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo – la mia volontà di fronte a quella di Dio –. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore, per il Quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in Lui – La speranza è questo: guadagnare Cristo ogni giorno, ogni istante della nostra vita, ed essere trovati in Lui –, non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo – dirà «Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me» –, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede, e questo perché io possa conoscere Lui e la potenza della Sua Risurrezione, la partecipazione alle Sue Sofferenze, diventandoGli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla Risurrezione dai morti – È questa la nostra speranza? –, non però che io abbia già conquistato il premio – San Paolo è onesto – o sia ormai arrivato alla perfezione. Solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo».
È per questo che corriamo, perché siamo stati conquistati.
E, se non corriamo, è perché ci siamo dimenticati di essere stati conquistati.
Domandiamo alla Madonna e a San Paolo di poter vivere così e di dare il nome all’esperienza che tutti già facciamo, perché, se siamo qui, tutti abbiamo già fatto questa esperienza: l’abbiamo fatta e la facciamo, solo che non ce la ricordiamo.
Che il cammino d’Avvento, che il cammino della vita abbia di nuovo inizio. Sia lodato Gesù Cristo.
2024-12-01
Autore : don Salvatore Vitiello